domenica 20 ottobre 2024
Scenario ipotesi responsabilità Mig decollato da Pratica di Mare
Davanzali parla di una scheggia con minuscole scritte in inglese e cirillico nel corpo di un passeggero del dc9.
Il mig è decollato da Pratica di Mare, secondo la perizia Forsching un aereo militare si immette sulla scia del dc9 a 50 km a sud di Roma.
Il mig non è un mig23 ms ma mig21f13, quello caduto sulla Sila.
Il generale Tascio e il sios am italia avevano il manuale nei loro uffici del mig 21f13 . Esso puo' aver abbattuto il dc9 con il suo cannone con proiettili HEI da 30 mm. Ag266 e Lk477 sono tracce zombie, due mig, se uno era Mig23 MF poteva essere polacco, ceduto dalla cia di roma al sios di tascio ed avere abbattuto il dc9 con apex a guida radar e inerte con pilota am italia. Laura Picchi
giovedì 17 ottobre 2024
Estratti sentenza Priore: conferma di numerosi punti tesi Ciancarella Mario
Non è propriamente vero che io come altri e altre abbiamo creduto a Ciancarella io perchè lo amavo per tanti anni come un padre, loro per amicizia fraterna, per niente.Abbiamo letto le carte
Ho pubblicato i punti della sentenza ordinanza Priore che se come fanno gli altri li prendiamo per buoni acriticamente viene fuori che la tesi di Ciancarella è la verità giudiziaria, nessuna inconsapevolezza di apportare
elementi inquinanti. Laura Picchi
Loi ha affermato che il giorno della sciagura gli venne comunicato un
piano di volo di un aereo proveniente da Tripoli e diretto in un paese
dell'Europa dell'Est; precisava che la traccia del velivolo era diretta verso
Malta (v. interrogatorio Loi Salvatore, GI 06.10.89).
A distanza di tempo, Loi, ritornava in argomento aggiungendo altri
particolari sul velivolo. Ricordava di aver ricevuto la sera del disastro un
piano di volo Lima-November (LN) - sigla che probabilmente identifica la
compagnia aerea libica - in rotta da Tripoli a Varsavia, e di averlo
inizializzato, nonostante avesse il piano di volo, come Zombie. Ciò in
quanto il velivolo proveniva da un paese non amico. Osservava, peraltro,
che il velivolo giunto ai limiti della FIR, in direzione dell'Ambra 13 verso
Nord, compì una deviazione verso Est in direzione di Malta. L'imputato,
però, si riteneva non in grado di specificare se la deviazione su Malta
effettuata dal velivolo fosse stata causata dalla eventuale assenza di
autorizzazione ad attraversare la FIR.
(Conversazione tra operatore di Martina Franca Patroni Griffi - P - e
l’operatore di Licola Acampora - A).
A: pronto?
P: capitano Patroni Griffi, chi è?
A: maresciallo Acampora, dica?
P: senta un po’, in quella zona lì, giù, avete per caso controllato traffico
americano voi in serata?
A: negativo, comandante.
P: ok, grazie.
A: prego.
Franco - bob. VI - Ciampino - canale 27, h.20.41 - Roma e Ambasciata
americana:
Roma: (verso l'int.: X – senti... la... scusami tanto l'esercitazione
interessava aeroplani americani... molti?
X1: ce l'avevamo noi l'esercitazione… (inc.).
In questo documento del 16 giugno 97 gli esperti del NPC fanno
presente come “la versione dell’ACP 160 custodita dal gruppo di lavoro
Ustica dello Stato Maggiore dell’Aeronautica porta la data dell’1.04.75,
copia 439 di 950. Essa contiene il Change 4, inserito nel luglio 79. Non vi è
però traccia dei Change 1, 2 o 3 che devono essere precedenti al Change 4.
Inoltre, sempre a proposito degli ACP160 e tenuto conto che ne esiste
una versione per ogni ente territoriale della NATO (Aclant, Afcent,
Airsouth, ecc.) ed in relazione ai codici SIF, gli esperti del NPC al punto 4)
del citato documento annotano: “Dato che i documenti sono classificati
come specificato sopra, non è possibile spiegare nella presente relazione il
significato dei vari codici o fornire informazioni che permettano di dedurne
il significato. Inoltre, le informazioni contenute in quella copia dell’ACP 160
devono essere considerate inattendibili perché incomplete.
In data 09.09.96 veniva sentito anche il tenente colonnello Ciotti
Claudio, tra il 1988 e il 1990 in servizio allo SMA. Costui, prendendo
visione di alcune cartine relative al sito di Poggio Ballone e inviate
successivamente dallo SMA a quest’Ufficio il 04.11.91, riferiva che nella
traccia LL004 si identificava un velivolo Awacs
Ad Elmas uno degli episodi più gravi di depistaggio, quello posto in
essere dal tenente di vascello Bonifacio. Su di esso già s’è scritto.
Tecnicamente la ricostruzione del predetto non regge assolutamente. Sul
piano delle prove nessuno degli altri componenti dell’equipaggio
dell’Atlantic Breguet conferma la vicenda; a parte uno dei sottufficiali
osservatori palesemente falso. Questo tentativo di deviazione delle indagini
è costato molto all’inchiesta, e tuttora è sostenuto da alcuni. Non se n’è mai
potuto accertare con precisione il movente.
Si è anche accertato tramite l’acquisizione di documentazione ITAV
quali fossero le condizioni meteorologiche sull’aeroporto prima durante e
dopo la permanenza del velivolo. Le precipitazioni furono le seguenti:
00.00/00.30 pioggia debole intermittente; 00.30/01.00 temporale debole con
pioggia (mm. 02.8); 13.30/15.55 temporale debole con pioggia; 14.55/15.00
pioggia debole intermittente (mm. 01.2); 15.20/15.55 temporale moderato
con pioggia; 15.55/16.30 temporale debole con pioggia (mm.08.2);
18.22/18.36 temporale moderato con pioggia (mm. 01.0) - totale mm. 13.2;
altri fenomeni di rilievo 01.00/02.00 temporale senza precipitazioni;
13.05/13.30 temporale senza precipitazioni; 15.10/15.20 temporale senza
precipitazioni (v. documentazione AM - servizio meteorologico: allegata al
rapporto ROCC, 09.05.94).
La sera del 27 giugno 80 atterrò su questo aeroporto un PD808,
bireattore in forza all’8° Gruppo del 14° Stormo. Riguardo a tale missione è
stata svolta attività istruttoria finalizzata ad individuare nel dettaglio il
velivolo utilizzato e gli effettivi scopi della missione stessa
Gheddafi venne a conoscenza
dei preparativi di “golpe” - cui avrebbe dovuto partecipare anche il maggiore
Jalloud - durante un suo viaggio di Stato in Polonia. Sulla via da Tripoli a
Varsavia il Colonnello fu informato della congiura e così interruppe la
missione facendo rotta su Malta, ove rimase ospite del Primo Ministro Dom
Mintoff, suo amico, per circa una settimana
L’Addetto militare di quell’Ambasciata colonnello Varizat in data 28.11.90
rispondeva che l’incidente era avvenuto fuori delle normali ore di lavoro
dell’aerobase di Solenzara situata in Corsica meridionale. I radar di
detezione avevano interrotto la loro attività operativa e comunque la portata
del radar di Solenzara era limitata ai dintorni del litorale orientale della
Corsica. Nessun velivolo dell’Armée de l’Air era presente nella zona
quando è avvenuto l’incidente.
Dall’esame di quelli della Foch
l’ufficiale desumeva che l’unità era rientrata nel porto di Tolone alle 16.25
del 26.06.80, rimanendovi fino alle ore 24.00 di domenica 29; mentre la
Clemenceau, risultava registrata erroneamente - dal personale di guardia
dalle ore 04.00 alle ore 08.00 del 27 giugno - come entrata in porto alle ore
06.45B del 26.06.80. Per quanto riguardava l’esame della documentazione
della Clemenceau, riferiva che dalle registrazioni riportate si rilevava una
situazione di navigazione fino all’attracco nel porto di Tolone alle ore 07.05
del 27.06.80. La portaerei risultava infine aver sostato in porto fino alle ore
08.00 di domenica 29 giugno
La visione delle annotazioni, poi, poneva immediatamente in risalto
l’eccezionalità delle scritture relative ai turni dalle 08.00-12.00 del 27
giugno 80 alle 00.00-04.00 del 28 seguente; tutte apparivano compilate da
una stessa mano, nonostante si fossero alternati, in quei cinque turni, cinque
diversi ufficiali e tre sottufficiali.
Gli Inglesi, attraverso il Segretario Generale del Foreign Office,
avevano risposto che dai documenti disponibili era risultato che alla data
indicata nessuna unità militare britannica aveva operato nelle vicinanze
dell’area dell’incidente. Gli aerei Jaguar dello squadrone della Royal Air
Force di stanza nell’80 a Decimomannu non erano a quell’epoca dotati di
missili aria-aria. La sola unità della marina britannica nell’area, una fregata
Leander, era ancorata a Napoli nel giorno dell’incidente.
I Francesi, attraverso il Segretario Generale del Quai D'Orsay,
avevano dichiarato che dalle verifiche effettuate dal Ministero della Difesa
era risultato che nessuna unità francese si trovava il 29 (sic!) giugno 80
nella zona situata tra Ponza ed Ustica o in prossimità. In effetti sul testo
francese si parla del 27 e s'aggiunge che dal Ministero “de l'equipment, du
logement, des transports et de la mer” era risultato che nessuna delle loro
navi si trovava nella zona, ma che tuttavia a causa della lentezza e delle
difficoltà materiali di verifica l'inchiesta continuava.
Gli Israeliani avevano dichiarato che “dopo un'inchiesta svolta presso
tutte le autorità teoricamente suscettibili di avere una qualsiasi
informazione sull'incidente era risultato che nessuna di tali autorità aveva la
minima informazione su di esso.”
I Tedeschi avevano riferito che da controlli effettuati presso tutte le
unità volanti delle forze armate della Repubblica Federale di Germania era
risultato che in data 27 giugno tra le 18.45 e le 19.45 GMT nessun velivolo
delle forze armate della Repubblica Federale si era trovato nella zona
indicata.
qui la Commissione comunque pervenne, anche se con qualche
perplessità, alla individuazione di una possibile posizione reciproca tra
l’eventuale caccia e il DC9, utile per il lancio di un missile tipo Sparrow, a
guida semi-attiva radar.
Un altro dato che desta sospetto è la mancata annotazione di tali
partenze nei registri della base di Grosseto. Tali voli, che nella THR di
Poggio Ballone risultano registrati con il NTN LL013 ad ore 18.18, LL425
ad ore 18.29, AA423 ad ore 18.44 e AA063\LL063 ad ore 18.45, sono
sicuramente militari in quanto recanti i SIF1 o 2.
Da tener presente, da ultimo, che noi sappiamo per certo - dall’esame
dei dati radar di Poggio Ballone, più che dal registro dei voli facilmente
alterabile - che due velivoli sono atterrati all’ora che s’è detto, ma nulla è
stato possibile definire con certezza sul rientro del terzo. Così come non è
stato possibile dire quale fosse questo terzo e conseguentemente quali
fossero gli altri due. Tra cui c’era con ogni probabilità quello dell’allievo
solo cioè Giannelli. Ma il secondo che atterra è quello di Nutarelli e Naldini
o piuttosto quello di Bergamini istruttore e Moretti allievo. Si tenga presente
che una di queste tre missioni di certo coincide con quella che fa Ground
Approach su Verona Villafranca di cui s’è detto e che quindi al rientro segue
per lungo tratto la rotta del DC9 approssimativamente agli stessi orari.
L’allievo solo d’altra parte poteva esser preso in carico, come si vedrà,
anche da altro istruttore, lasciando libero per missione operativa il velivolo
con i due istruttori. Per morte di costoro e la “chiusura” totale dei
sopravvissuti, non si è riusciti sino a questo punto ad appurare uno dei
passaggi fondamentali dell’inchiesta. Senza dire che più d’un militare AM
conosce anche i dettagli di quelle missioni e non pochi hanno sempre saputo
leggere i tabulati di Poggio Ballone.
mercoledì 16 ottobre 2024
Ustica il frammento di carrello con il fosforo nella gamba della passeggera del dc9
Inoltre la presenza di fosforo su una
scheggia della struttura del carrello principale, ritrovato nel corpo di un
passeggero, comprova che l'aereo è stato colpito da un ordigno bellico. Il
quadro delle evidenze dell'incidente, pertanto, configura che l'aeromobile
DC9 Itavia è stato colpito da un dispositivo bellico di origine attualmente
ancora non dimostrabile con evidente proiezione dei rottami principali lungo
la traiettoria seguita dall'aereo militare intercettore” (v. comunicato stampa
Itavia, 17.12.80).
Sentenza ordinanza Priore
sabato 5 ottobre 2024
Sintesi Strage Moby prince
Commissioni di inchiesta, processi e condanneIl processo di I grado (Livorno)
Immediatamente dopo la collisione, la Procura di Livorno apre un fascicolo per omissione di soccorso e omicidio colposo; le indagini, coordinate dal procuratore capo Antonino Costanzo, furono assegnate prima a Luigi De Franco e poi a Carlo Cardi, che sostenne l'accusa in giudizio.
Il processo di primo grado inizia il 29 novembre 1995. Gli imputati sono 4: il terzo ufficiale di coperta dell'Agip Abruzzo Valentino Rolla, accusato di omicidio colposo plurimo e incendio colposo; Angelo Cedro, comandante in seconda della Capitaneria di Porto e l'ufficiale di guardia Lorenzo Checcacci, accusati di omicidio colposo plurimo per non avere attivato i soccorsi con tempestività; Gianluigi Spartano, marinaio di leva, imputato per omicidio colposo per non aver trasmesso la richiesta di soccorso.
In istruttoria il giudice per le indagini preliminari, Roberto Urgese, decide di archiviare le posizioni dell'armatore di Navarma, Achille Onorato, e del comandante dell'Agip Abruzzo, Renato Superina[32].
Il processo, pieno di momenti di tensione, si conclude due anni dopo: la sentenza viene pronunciata nella notte tra il 31 ottobre e il 1º novembre 1997. In un'aula piena di polizia e carabinieri, chiamati dal tribunale per la tutela dell'ordine pubblico, il presidente Germano Lamberti (nel 2009 condannato a 3 anni per corruzione in atti giudiziari in una vicenda di illeciti edilizi) lesse il dispositivo della sentenza con cui furono assolti tutti gli imputati perché «il fatto non sussiste»[33]. La sentenza verrà però parzialmente riformata in appello: la terza sezione penale della Corte d'Appello di Firenze dichiara il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.
Nel 2013, susciterà ampia eco la condanna dell'allora presidente del collegio, Lamberti, a 4 anni e 9 mesi di reclusione per corruzione in atti giudiziari, in ordine ad alcune vicende legate alla commissione di illeciti ambientali all'isola d'Elba (Cass. pen., sez II, n. 7793/2013, CED).
Il processo di II grado (Firenze)
Il 5 febbraio 1999 la III Sezione della Corte d'Appello di Firenze dichiara di "non doversi procedere nei confronti del Rolla in ordine ai reati ascrittigli perché estinti per intervenuta prescrizione". I giudici di Firenze aggiungono tuttavia in sentenza "(...) non si può non rilevare, che l'inchiesta sommaria della Capitaneria, che per alcuni versi è la più importante perché interviene nell'immediatezza del fatto ed è in qualche modo in grado di indirizzare i successivi accertamenti e di influire sulle stesse indagini penali, può essere condotta da alcuni dei possibili responsabili del disastro".
Il processo parallelo contro le manomissioni a bordo (pretore di Firenze)
Contemporaneamente al processo principale, nell'allora pretura vennero giudicate due posizioni stralciate: quella del nostromo Ciro Di Lauro, che si autoaccusò della manomissione, sulla carcassa del traghetto, di un pezzo del timone, e quella del tecnico alle manutenzioni di Navarma, Pasquale D'Orsi, chiamato in causa da Di Lauro. I due erano accusati di frode processuale, per aver modificato le condizioni del luogo del delitto, ovvero per aver orientato diversamente la leva del timone in sala macchine da manuale ad automatico, nel tentativo di addossare l'intera responsabilità della vicenda al comando del Moby Prince[34].
Nel corso di una udienza, Ciro Di Lauro confessò di aver manomesso il timone[35]. Il pretore di Livorno però assolse entrambi gli imputati perché si sarebbe trattato di un «falso grossolano», ossia di un tentativo inidoneo a trarre in errore i consulenti tecnici e i periti: il fatto fu così qualificato come «reato impossibile». La sentenza verrà confermata sia dal processo di appello sia in Cassazione.
Verso un terzo processo
Nel 2006 la Procura di Livorno, su richiesta dei figli del comandante Chessa, decise di riaprire un'inchiesta sul disastro del traghetto (RGNR 9726/2006 mod. 44)[36].
Nel 2009 l'associazione dei familiari delle vittime presieduta dai fratelli Chessa, in una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, chiede a questi di farsi portavoce presso il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama della richiesta di rendere pubblici i tracciati radar, le immagini satellitari o qualsiasi altro materiale in possesso delle autorità statunitensi relativo alla situazione nella rada del porto di Livorno durante le ore del disastro del Moby Prince.[37]
Nell'aprile 2009, l'onorevole Ermete Realacci ha presentato una nuova interrogazione parlamentare riguardo al coinvolgimento di altre navi, in particolar modo imbarcazioni militari statunitensi presenti la notte della tragedia nel porto di Livorno e riguardo alla presenza mai accertata definitivamente dei tracciati radar e delle comunicazioni radio registrate a Camp Darby[38].
L'istanza di riapertura delle indagini per appurare le reali responsabilità, con motivazioni non condivise da tutti i familiari delle vittime, è stata presentata dal legale dei figli del Comandante Chessa nel 2006[39]. Con maggiore attenzione era stato chiesto di occuparsi della questione del traffico illecito di armi e della presenza di navi militari o comunque navi al di fuori del controllo della Capitaneria di Porto, che possano essere causa o una delle concause del disastro[40].
Nel 2006, l'ipotesi di trovare immagini satellitari della sciagura prese di nuovo corpo dopo il ritrovamento di alcune bobine di immagini negli uffici della Procura di Livorno[41].
Nel giugno del 2009, a seguito delle indagini riaperte dalla procura, viene sentito nuovamente come persona informata sui fatti il mozzo di bordo Alessio Bertrand, unico sopravvissuto al rogo[42].
Nel luglio del 2009, su richiesta della magistratura, sono state eseguite scandagliature della zona di porto in cui è avvenuto lo scontro, e stando alle prime indiscrezioni, sarebbero emersi alcuni reperti utili alle indagini[43].
Il 5 maggio 2010 il PM Antonio Giaconi presenta richiesta di archiviazione, accolta dal GIP di Livorno. Secondo la procura labronica, le ricostruzioni prospettate dai Chessa non troverebbero alcun riscontro nelle risultanze probatorie acquisite. A pagina 140 della richiesta di archiviazione si legge inoltre:
«A questo punto, sgombrato il campo da ricostruzioni viziate da suggestioni, cattiva conoscenza e interpretazione degli atti processuali e interessate forzature, è doveroso ricostruire il sinistro individuando le reali cause dello stesso e, conseguentemente, le responsabilità, anche al fine di valutare l'attuale possibilità di esercizio dell'azione penale. La presente indagine infatti non si è limitata alla verifica degli scenari ricostruttivi ipotizzati dalla difesa dei Chessa, verificandone l'infondatezza con particolare riferimento alle cause e dinamica della tragica collisione, ma ha avuto il proposito di dare una risposta esaustiva alle domande sulle reali cause dell'evento. I dati significativi si possono riassumere nel seguente modo: 1) il traghetto Moby Prince è uscito dal porto di Livorno con destinazione Olbia impostando la velocità massima di crociera (o prossima alla massima) secondo prassi, nella convinzione del comando nave di trovarsi in condizioni di assoluta normalità dal punto di vista meteo marino e quindi anche della visibilità e perciò nella errata convinzione di conoscere e poter controllare otticamente la situazione delle navi alla fonda nella zona della rada e in particolare di quelle che si trovavano in prossimità della rotta più diretta per Olbia;
2) la apparente normalità delle condizioni creava il tipico meccanismo psicologico di allentamento della attenzione nel personale di plancia e nel resto dell'equipaggio, clamorosamente esplicitato, in particolare, dalle condizioni con le quali la nave Moby Prince veniva fatta viaggiare, avendo il portellone prodiero di seconda difesa - prescritto dalla normativa MARPOL 73-78 - ANNEX 1 - aperto (cfr. da ultimo la relazione di consulenza tecnica depositata dall'ing. Gennaro il 17 novembre 2009) e dell'impianto sprinkler (antincendio) non funzionante, in quanto disabilitato;
3) improvvisamente la nave entrava in un banco di nebbia (v., da ultimo: le dichiarazioni di Mattei e Valli - gli ormeggiatori che hanno salvato la vita all'unico superstite del Moby Prince - al P.M. il 23.11.2009, quelle di Muzio - pilota del porto che uscì la notte della tragedia - rese al P.M.l'8/11/2009, e ancora le dichiarazioni dell'unico superstite del Moby Prince, Bertrand, nuovamente sentito dal P.M. il 9 giugno 2009, e quelle di Rolal in sede di nuovo interrogatorio il 5 giugno 2009), che coglieva totalmente impreparata la plancia del traghetto in quanto non visibile otticamente, tenuto conto del buio della notte e della collocazione del banco stesso che si trovava basso sull'orizzonte verso il largo rispetto alla direzione del traghetto in modo da non costituire ostacolo né per l'osservazione delle luci della costa né per quella delle stelle;
4) la plancia del Moby Prince, presa alla sprovvista e con la nave ormai lanciata alla velocità di crociera, provvedeva incautamente ad accendere i fari collocati a prua della nave - c.d. cercanaufraghi - (prima spenti: v. dichiarazione del pilota Muzio sopra richiamate, e che aveva poco prima incrociato il Moby Prince conducendo una nave all'interno del porto) nella speranza di migliorare la visibilità sullo specchio di mare davanti a sé, ma in realtà peggiorando le condizioni di visibilità;
5) l'urto con l'Agip Abruzzo, ferma all'ancora con prua orientata su 300° circa (v. da ultimo sul punto la relazione di consulenza tecnica del P.M. dell'ing. Rosati e dott. borsa depositata il 17 giugno 2009 che riassume il complesso degli elementi che consentono con certezza tale ricostruzione dell'orientamento della nave) avveniva poco dopo interessando la fiancata di destra con un angolo calcolato di circa 71° prora - poppa (109° prora - prora), navigando il Moby Prince con direzione di circa 191° a una velocità di circa 18 nodi. Come è stato spiegato dal C.T. ing. Gennaro, la collisione ha avuto caratteristiche fondamentalmente anelastiche, "nel senso che tutta l'energia cinetica disponibile da parte del M.P. al momento della collisione con l'Agip Abruzzo si è tramutata in lavoro di lacerazione, deformazione, riscaldamento, rumore e scintille" (par. 19 della relazione);
6) pressoché immediatamente si incendiava il greggio della cisterna 7 di destra della petroliera, dentro la quale era penetrata la prua del Moby Prince. Infatti la penetrazione della prua del Moby Prince nella cisterna sollevava dinamicamente il livello del carico (5,71 metri sul livello del mare: v. rel. Gennaro) e conseguentemente parte del carico si riversava sulla parte prodiera del ponte di coperta (ponte prodiero di manovra) elevato di circa 7,8 metri sulla superficie del mare, incendiandosi;
7) l'apertura della porta stagna prodiera e l'impianto di ventilazione in funzione agevolano decisamente l'ingresso di greggio e vapori nei garage e nei locali interni del Moby Prince, cominciando a divampare il fuoco su tutta la parte prodiera del traghetto coinvolgendo il personale di plancia e progressivamente le restanti parti e locali della nave;
Una causa della tragedia - anche se è doloroso affermarlo - è dunque individuabile in una condotta gravemente colposa, in termini di imprudenza e negligenza, della plancia del Moby Prince. La ricostruzione della dinamica dell'evento può apparire - come più volte sottolineato - banale nella sua semplicità, e dunque non accettabile emotivamente, prima che razionalmente, soprattutto in considerazione dell'enorme portata delle conseguenze che ne sono derivate in termini di vite umane. Occorre tornare al quesito di base: comprendere fino in fondo come sia possibile che personale di bordo ritenuto preparato, al comando di una nave dotata degli impianti per la sicurezza della navigazione secondo le regole in vigore all'epoca, possa avere così gravemente errato nella conduzione della nave; e come sia possibile che una collisione con una petroliera alla fonda, avvenuta a così poca distanza dal porto di Livorno abbia potuto avere così tragiche conseguenze...[14]»
La Commissione parlamentare d'inchiesta
Antefatto
Dal 5 maggio 2013 ha preso avvio una campagna permanente per sostenere la lotta civile dei familiari delle vittime del Moby Prince per ottenere verità e giustizia. La campagna, chiamata #IoSono141[44] e ispirata al Movimento Yo Soy 132, è sostenuta dalle associazioni familiari delle vittime del Moby Prince e mira soprattutto a creare una forte spinta popolare di sostegno alla creazione di una Commissione parlamentare d'inchiesta sul Moby Prince[45]. Giova peraltro ricordare che già tra il giugno 1996 e il novembre 1997 diversi parlamentari dei vari gruppi politici ne proposero a più riprese l'istituzione sia alla Camera[46] che al Senato[47], ma senza ottenere successo.
Creazione della Commissione
Il 31 gennaio 2014, a seguito di un incontro a Sassari tra i familiari delle vittime del Moby e l'allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, viene consegnata a quest'ultima una sintesi di un dossier tecnico di 4000 pagine[48]: tale dossier, frutto del lavoro condotto negli ultimi anni dallo studio di ingegneria forense Bardazza di Milano su richiesta degli stessi familiari delle vittime, è teso a sconfessare punto per punto le motivazioni alla base delle conclusioni addotte dalla Procura di Livorno nel maggio del 2010 in merito alla richiesta di archiviazione dell'inchiesta-bis[49].
Il 27 marzo 2014 sono stati depositati in Senato due disegni di legge, da parte dei partiti Movimento 5 Stelle e Sinistra Ecologia Libertà, per l'istituzione della Commissione parlamentare d'inchiesta per fare luce sulla vicenda, accogliendo la richiesta dei parenti delle vittime[50]. A questi segue poi un terzo disegno di legge analogo, presentato questa volta dal Partito Democratico il 14 luglio: in questo caso il testo proposto dai senatori democratici viene considerato insoddisfacente sia dai familiari delle vittime che dai loro periti in quanto, a differenza degli altri due, si mira a ottenere una Commissione d'inchiesta limitata sia temporalmente che dal punto di vista del budget di cui la stessa potrà disporre, nonché monocamerale (anziché bicamerale, come fortemente voluto dai familiari delle vittime) e, pertanto, soggetta al rischio di decadere nel caso di interruzione anticipata della legislatura.
Il 9 aprile 2015, proprio alla vigilia del 24º anniversario della tragedia, col via libera all'unanimità in commissione Lavori Pubblici del Senato viene mosso il primo decisivo passo all'istituzione della Commissione d'inchiesta, sulla cui approvazione definitiva è dunque atteso il pronunciamento dell'Aula[51]. La calendarizzazione del voto in Senato non avviene tuttavia nell'immediato, venendo anzi rimandata di svariati mesi, mesi durante i quali, in risposta a tale nuovo silenzio delle Istituzioni, Loris Rispoli e Angelo Chessa, in qualità di rappresentanti delle rispettive associazioni dei familiari, lanciano il loro appello al Presidente del Senato Pietro Grasso affinché proceda all'immediata calendarizzazione del testo[52]: l'appello viene raccolto e diffuso in maniera incessante sui social network, in particolare per mezzo della pagina Twitter ufficiale dedicata al Moby Prince[53], allo scopo di coinvolgere quante più persone possibili che contribuiscano a fare pressione sullo stesso Presidente Grasso, a cui vengono inviate centinaia di email in sostegno alla richiesta dei due familiari.
Trascorsi oltre tre mesi, il 4 luglio prima[54] e il 15 luglio poi[55], viene avanzata da parte del M5S e di SEL la richiesta di calendarizzazione d'urgenza del testo votato all'unanimità in commissione il 9 aprile, richiesta su cui l'assemblea di Palazzo Madama si pronuncia tuttavia in entrambi i casi con voto contrario, suscitando rabbia e indignazione tra i parenti delle vittime. Finalmente viene fissata al 22 luglio la votazione del testo: al termine delle dichiarazioni di voto di alcuni esponenti di tutti i gruppi politici, il Senato si esprime all'unanimità sull'istituzione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul Moby Prince[56][57][58][59][60] e Luchino Chessa dice al riguardo:
«È un giorno storico per noi familiari delle vittime del Moby Prince, ma anche per tutti i cittadini italiani che vogliono giustizia e verità. Un importante segno di democrazia, visto che tutti i senatori, sia del governo che dell'opposizione, hanno votato a favore.»
Relazione finale
Il 22 gennaio 2018 la Commissione parlamentare d'inchiesta pubblica la relazione finale di 492 pagine.[61][62] Queste le principali conclusioni della relazione:
La tragedia non è affatto riconducibile alla presenza di nebbia e/o alla negligenza dell'equipaggio del traghetto
La nebbia è stata immotivatamente utilizzata come giustificazione del caos dei soccorsi coordinati dalla Capitaneria di porto, allora comandata dall'ammiraglio Sergio Albanese
L'indagine della Procura di Livorno nel processo di primo grado si è rivelata carente e condizionata da fattori esterni
L'accordo assicurativo siglato due mesi dopo l'incidente tra gli armatori delle due navi coinvolte ha condizionato l'operato dell'Autorità giudiziaria, a dimostrazione di ciò, a seguito di tale accordo, l'Agip Abruzzo è stata dissequestrata prima della definizione della fase processuale di primo grado, impedendo ogni ulteriore approfondimento. L'accordo prevedeva che la società Eni si assumesse i costi relativi ai danni alla petroliera e di inquinamento e la società NAVARMA i costi di risarcimento delle vittime del traghetto, chiudendo, di fatto, ogni possibile ipotesi di responsabilità
Pur essendo la Moby Prince sotto sequestro, era comodamente accessibile a chiunque
L'indagine medico-legale è stata eseguita in maniera lacunosa, concentrandosi sul riconoscimento delle vittime, senza appurare le cause della morte di ciascuna vittima
L'Agip Abruzzo, al contrario di quanto riportato in fase di indagine processuale, si trovava in zona di divieto di ancoraggio. L'errore di posizionamento durante le indagini ha portato a escludere ogni responsabilità al comando della petroliera
La Moby Prince ha subìto, per cause non chiare, un'alterazione nella rotta di navigazione che potrebbe aver influito sulle cause dell'impatto
La morte dei passeggeri e dell'equipaggio non è avvenuta per tutti entro trenta minuti, come invece riportato negli atti processuali
La Capitaneria di porto non aveva gli strumenti necessari per individuare la seconda nave, la Moby Prince, sebbene la responsabilità dei soccorsi fosse a suo carico, rivelandosi carente nella gestione della gravità della situazione e del tutto incapace di coordinare un'azione di soccorso
Il procedimento penale a carico di Ciro Di Lauro per la tentata manomissione del timone non ha chiarito le motivazioni del gesto
Il comportamento di ENI si è rivelato non chiaro a partire dalla comunicazione sulla provenienza della petroliera. L'Agip Abruzzo proveniva infatti da Genova e non da Sidi El Kedir (Egitto), come dichiarato, di conseguenza anche le dimensioni e la tipologia del carico potevano essere differenti da quanto dichiarato. La cisterna trovata aperta dopo l'incidente poteva quindi ipoteticamente contenere materiale in trasferimento su una bettolina.
La seconda commissione parlamentare d'inchiesta
Istituzione
Una seconda commissione parlamentare d'inchiesta è stata istituita durante la XVIII legislatura, con delibera della Camera dei deputati del 12 maggio 2021. La Commissione aveva, tra gli altri, il compito di «ricercare e valutare nuovi elementi che possano integrare le conoscenze sulle cause e sulle circostanze del disastro» acquisite dalla prima commissione parlamentare, di «accertare eventuali responsabilità in ordine ai fatti» e di accertare con la massima precisione «le comunicazioni radio intercorse tra soggetti pubblici e privati nelle giornate del 10 e 11 aprile 1991, i tracciati radar e le rilevazioni satellitari».[63]
La perizia del RIS
La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause del disastro della nave ha affidato al Reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri una perizia per accertare se a bordo della Moby Prince vi fosse o meno dell'esplosivo. L'analisi è stata svolta dal colonnello dei carabinieri Adolfo Gregori, comandante della sezione chimica del Reparto, e ha condotto all'affermazione secondo cui non c’era esplosivo nel locale motore dell’elica di prua e nel garage sovrastante all’interno del traghetto.[64]
Relazione finale
Secondo la relazione della Commissione, approvata il 15 settembre 2022, nel disastro sarebbe stata coinvolta una terza nave, che avrebbe ostacolato il percorso del Moby Prince, costringendolo ad una brusca ed imprevista virata (di circa 30°) e portandolo a colpire la petroliera. Secondo l’inchiesta, quest’ultima sarebbe stata ancorata in posizione irregolare (posizione individuata tramite foto satellitari statunitensi desecretate nel 2018), era avvolta in una nube di vapore acqueo dovuta alla probabile avaria dei sistemi idraulici e pochi minuti prima era stata colpita da un blackout che la rendeva di fatto invisibile. La dimostrazione di quest’ultima ricostruzione viene dagli ingegneri della società genovese Cetena, che hanno analizzato tutti i dati in possesso della Commissione, le condizioni meteo della giornata e le posizioni delle navi davanti a Livorno. Queste informazioni però non identificano la nave che avrebbe costretto la Moby Prince alla virata; s'ipotizza che sia l’ex peschereccio d’altura 21 Oktoobar II, con bandiera somala e di proprietà della Shifco di Mogadiscio. Questa imbarcazione venne trasformata in cargo e apparve anche in un’indagine sul trasporto illegale di armi da guerra. La Commissione ha verificato che questa nave era a Livorno il giorno del disastro.[65]
La relazione esclude inoltre l'ipotesi dell'avaria a bordo del traghetto: «Il sistema delle eliche era in piena efficienza al momento della collisione, non vi era alcuna avaria né malfunzionamento ai sistemi della Moby Prince». Secondo il presidente della Commissione, Andrea Romano «l'ipotesi di una bomba esplosa a bordo del Moby Prince, insieme a quella della nebbia o della distrazione del comando del traghetto durante la navigazione, hanno contribuito a creare confusione su ciò che è realmente accaduto la notte del 10 aprile 1991» ed «Eni, che è una grandissima società ed è un vanto nazionale, forse sapeva che Agip Abruzzo si trovava dove non doveva essere, forse sapeva anche del black out o del vapore e perfino che forse era coinvolta in attività di bunkeraggio clandestino: noi abbiamo chiesto i materiali delle inchieste interne ma non li abbiamo avuti. Spero che chi lo farà in futuro sia più fortunato di noi».[66]
Controversie e altre ipotesi
L'ipotesi dell'attentato
Al vaglio della magistratura passò anche l'ipotesi di un ordigno collocato all'interno del traghetto, che sarebbe stato quindi mandato fuori rotta dall'esplosione. Tale ipotesi, inizialmente molto accreditata[67][68][69][70], venne definitivamente scartata, durante lo svolgimento del processo, grazie a perizie[71] e testimonianze[72], in particolare quella dell'unico superstite, che in sede processuale ribadì che a bordo non vi fu alcuna esplosione[30][73] ma che dopo la collisione sia il traghetto che il mare intorno ad esso si incendiarono a causa del petrolio fuoriuscito dall'Agip Abruzzo[74].
Il traffico in rada
L'ipotesi che si potessero trovare immagini e dati sullo scontro tra le due imbarcazioni negli archivi satellitari statunitensi[75] e in quelli delle basi NATO ebbe per qualche tempo una certa risonanza, ma fu successivamente categoricamente smentita[76].
La presenza di bettoline, magari impegnate nel furto di idrocarburi dalla Agip Abruzzo, è stata discussa nell'ambito della tesi secondo cui un'imbarcazione estranea tagliò la strada al traghetto, ma non è mai stata confermata. Il comandante della petroliera, nei messaggi iniziali inviati ai soccorritori, indicò più volte in una bettolina la nave coinvolta nello scontro[77], inconsapevole di cosa era accaduto davvero, cioè del fatto che lo scontro era avvenuto con il Moby Prince.[7] I primi messaggi radio del comandante della Agip Abruzzo potrebbero essere attribuiti alla concitazione del momento e alla scarsa visibilità provocata dal fumo dell'incendio[78]. Del resto alcuni marinai della Agip Abruzzo dichiararono di avere intravisto la sagoma della nave investitrice tra il fumo e le fiamme nei minuti successivi all'incidente, ma solo alcuni di loro riconobbero in essa un traghetto.
A sostegno della tesi della presenza di almeno una bettolina a complicare la situazione sono essenzialmente tre elementi:
la constatazione, alcuni giorni dopo l'incidente, che la cisterna 6 della Agip Abruzzo non era correttamente sigillata[79],
il rinvenimento di un tubo semi carbonizzato idoneo al rifornimento di una nave di piccole dimensioni,
la seguente annotazione delle ore 23:30 circa nel diario di bordo del capitano della "Efdim Junior":
«Venivamo a conoscenza che due navi, una passeggeri e una cisterna, erano entrate in collisione ed era scoppiato un incendio. Decidevo di rimanere all'ancora a causa del gran numero di navi in movimento che si allontanavano dalla nave in fiamme e al gran numero di imbarcazioni che prendevano parte alle operazioni di ricerca e salvataggio con visibilità zero.»
Contro l'ipotesi della bettolina incidono pesantemente le testimonianze verbalizzate durante il processo, rilasciate da più persone, tra cui l'avvisatore marittimo Romeo Ricci e il pilota di porto Federico Sgherri oltre a molti altri ufficiali dell'Agip Abruzzo e ormeggiatori del porto[80].
Riguardo a quali navi erano presenti nel porto quella sera e a dove esse si trovavano, almeno due mercantili statunitensi, presumibilmente la Cape Breton e la Gallant II, compaiono alla fonda assieme alla Agip Abruzzo in una fotografia scattata dal lungomare di Livorno durante il pomeriggio antecedente la tragedia. Sempre il capitano Gentile chiarisce, nella sua testimonianza, la posizione di alcune delle navi in rada poco dopo il disastro:
«Vidi la sagoma dell'Agip Abruzzo appena uscito dal porto, ma non il Moby in fiamme [...] Avevo una petroliera sul lato sinistro, a circa 700-800 metri dall'Accademia navale. Poi c'era la petroliera messa in questa posizione. Sull'altro raggio c'erano altre quattro navi fra cui c'era anche una nave, forse di munizioni; mentre all'imboccatura nord, proprio all'altezza del Calambrone, c'era, illuminata, la nave americana che stava caricando munizioni.»
Vi era inoltre da valutare il ruolo della famosa nave Theresa, menzionata in una misteriosa traccia audio, registrata alle 22,45 della notte dello scontro[81]:
«This is Theresa, this is Theresa for the ship one in Livorno anchorage i'm moving out, i'm moving out....»
(registrazione audio proveniente da "Theresa"[7])
Nei registri del porto di Livorno di quella notte non risulta essere mai stata presente una nave chiamata Theresa; solo nel 2013, confrontando le voci presenti nelle comunicazioni, si riuscì a capire che si trattava di un nome in codice usato dalla Gallant II. Non si chiarì mai, invece, a chi tale nave comunicò l'imminente abbandono (the ship one, altro nome in codice) del porto in tutta fretta.
Anomalie nella ricostruzione dei fatti
Un'ulteriore anomalia è data dalla circostanza secondo cui il traghetto, anche se contabilizzato, nel bilancio dello stesso 1991, per un valore pari a circa 7 miliardi di lire, era assicurato per 20 miliardi, somma liquidata da Unione Mediterranea di Sicurtà (poi Generali) nel febbraio 1992, quando le indagini preliminari non si erano ancora concluse.
Un altro elemento molto controverso riguarda la navigazione della petroliera: secondo Snam, la Agip Abruzzo sarebbe giunta a Livorno direttamente da Sidi El Kedir, in Egitto, dopo 5 giorni di viaggio, mentre il sistema di controllo della Lloyd List Intelligence evidenzia che, prima di attraccare nello scalo toscano, la petroliera avrebbe effettuato soste a Fiumicino e a Genova. La relazione finale della Commissione parlamentare conferma che l'ultimo scalo dell'Agip Abruzzo era stato a Genova e non in Egitto.[82][83]
La questione delle navi militari e somale
Un punto mai chiarito, a causa dello stretto riserbo da parte delle autorità italiane e statunitensi in merito, è quello della presenza in rada (all'interno cioè della zona di porto teatro della sciagura) di navi militari statunitensi o di altre nazioni e delle loro eventuali attività[84], una delle quali potrebbe aver interferito con la manovra del traghetto. Appurato da verbali e registri che molte navi statunitensi transitavano e sostavano nel Porto di Livorno nella notte dell'incidente, esistono alcune zone d'ombra mai chiarite, in merito a un'eventuale responsabilità di queste ultime o dei loro carichi nella dinamica dello scontro[7]. La vicinanza della base statunitense di Camp Darby di fatto rendeva frequente la presenza di navi statunitensi nel porto. Nella notte in questione, molte navi militari erano ferme in rada sotto falso nome o con nomi di copertura, si presume eseguendo attività che non risultarono autorizzate dalla prefettura, come previsto dalla legge italiana.[84]
Secondo alcune ipotesi, la dinamica dell'incidente si legherebbe ai traffici illeciti di armi e di rifiuti tossici tra Italia e Somalia[85][86][87]. Tale ricostruzione si basa principalmente sulla circostanza secondo cui nel porto di Livorno si trovava ormeggiato, la sera stessa dell'incidente, il peschereccio 21 Oktoobar II, teoricamente destinato alla commercializzazione di prodotti ittici ma asseritamente adibito al trasporto illecito di armi tra La Spezia, Marina di Carrara, Livorno e Gaeta, reso possibile dalla complicità di alcuni funzionari. Questa nave, appartenente alla Somali High Seas Fishing Company (Shifco), era stata donata dall'Italia nell'ambito della cooperazione allo sviluppo[88]; è stato quindi ipotizzato, sempre sostenendo che il Moby Prince sia stato ostacolato da una nave durante l'uscita dal porto, che essa fosse proprio il 21 Oktoobar II.
È stato appurato che alcuni tra i passeggeri radunati nel salone De Luxe del Moby Prince avevano con loro i propri bagagli, come se fossero pronti a sbarcare; a seguito di ciò l'associazione dei familiari delle vittime guidata dai figli del comandante Chessa ha sostenuto che egli, capendo che in zona erano in atto alcuni traffici poco trasparenti e ritenendo non sicuro proseguire il viaggio in tali condizioni, avrebbe deciso di riportare la nave ed i passeggeri in porto, venendo però ostacolato da una terza nave e finendo per impattare contro la Agip Abruzzo[89].
La nave 21 Oktoobar II e la Shifco divennero poi soggetti d'interesse dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin nella loro inchiesta giornalistica sui traffici di armi e rifiuti, prima che venissero uccisi a Mogadiscio.
mercoledì 2 ottobre 2024
sintesi processi Calogero Mannino
Indagini e procedimenti giudiziariProcedimento per associazione mafiosa
Nel 1991, sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Rosario Spatola e Giacoma Filippello, il sostituto procuratore di Trapani Francesco Taurisano aprì un procedimento contro Mannino per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, ma l'indagine venne trasferita per competenza territoriale presso la procura di Sciacca, la quale nell'ottobre dello stesso anno archiviò il caso[8]. In quel caso Taurisano denunciò delle pressioni da parte del procuratore capo Antonino Coci e la circostanza che i fascicoli d'indagine sarebbero stati trafugati dal suo ufficio[9], che portò il CSM a trasferire d'ufficio entrambi.[10]
Procedimento per corruzione e finanziamento illecito ai partiti
Nell'agosto 1993 Mannino venne coinvolto nelle inchieste sulla Tangentopoli siciliana: fu infatti uno dei destinatari, insieme ad altri sette deputati e senatori siciliani, di un'informazione di garanzia da parte del procuratore aggiunto Guido Lo Forte e dei pm Roberto Scarpinato, Giovanni Ilarda, Luigi Patronaggio, Antonio Ingroia e Maurizio De Lucia che seguiva le dichiarazioni di Filippo Salamone, un imprenditore edile agrigentino all'epoca sotto processo per turbativa d'asta che lo accusava di aver intascato una tangente di 900 milioni di lire, i quali sarebbero serviti per finanziare la segreteria nazionale della Democrazia Cristiana[11]. Rinviato a giudizio nell'ottobre 1994[12], Mannino venne poi assolto da ogni accusa[13][14].
Procedimento per concorso esterno in associazione mafiosa
Il 24 febbraio 1994 la procura di Palermo avvia un'inchiesta nei suoi confronti con la notifica di un avviso di garanzia a seguito delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giuseppe Croce Benvenuto, Gioacchino Schembri e Leonardo Messina[15]; poi le accuse del nuovo collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino (ex medico, mafioso e consigliere comunale democristiano) si rivelarono determinati per il suo arresto, disposto il 13 febbraio 1995 dai sostituti procuratori Teresa Principato e Vittorio Teresi con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa[16]: secondo l'accusa, poi rivelatasi insussistente, Mannino avrebbe stretto un patto, inizialmente con Cosa Nostra e poi con la Stidda, per avere voti in cambio di favori[17][18]. Dopo un periodo di detenzione (nove mesi di carcere e tredici di arresti domiciliari), durante il quale si mette in moto un'ampia mobilitazione sostenuta anche da una raccolta di firme per la scarcerazione motivate dalle sue precarie condizioni di salute, nel gennaio del 1997 viene rimesso in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare.
Nel 2001 Mannino è assolto in primo grado perché il fatto non sussiste[19][20][21]: veniva riconosciuto dai giudici che l'imputato aveva ricevuto dei voti da alcuni aderenti a Cosa Nostra ma non era dimostrabile oltre ogni ragionevole dubbio la "volontà di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell'associazione"[22][23].
L'assoluzione viene impugnata dal pubblico ministero e la corte d'appello di Palermo, nel maggio 2003 condanna Mannino a 5 anni e 4 mesi di reclusione.
Nel 2005 la Corte di cassazione annulla la sentenza di condanna riscontrando un difetto di motivazione, rinviando ad altra sezione della corte d'appello.[24] Nell'occasione il procuratore generale presso la corte di cassazione, nel chiedere l'annullamento della sentenza di condanna, così si esprime: “Nella sentenza di condanna di Mannino non c'è nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c'è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta...”.[25][26][27][28]
Il 22 ottobre 2008, riprendendo la sentenza di primo grado, i giudici della seconda sezione della corte d'appello di Palermo assolvono Mannino perché il fatto non sussiste.[29] La procura generale di Palermo in seguito impugna l'assoluzione, facendo ricorso in Cassazione.[30]
Il 14 gennaio 2010, la Corte di Cassazione assolve definitivamente l'ex ministro democristiano perché il fatto non sussiste, confermando le tesi contenute nella sentenza d'appello.[31]
Richiesta di risarcimento allo Stato da parte di Mannino
Dopo l'assoluzione Mannino fa causa allo Stato chiedendo un risarcimento per ingiusta detenzione[32], ma nel maggio 2012 i giudici della Corte d'appello di Palermo rigettano la richiesta[33] in quanto Mannino è stato riconosciuto consapevole di ricevere appoggio elettorale da un boss mafioso.[34]
Processo sul coinvolgimento nella trattativa tra Stato e mafia
Lo stesso argomento in dettaglio: Processo sulla trattativa Stato-mafia.
È stato indagato nell'ambito del processo sulla trattativa Stato-mafia,[35][36] venendo assolto in tutti e tre i gradi di giudizio.
Il 24 luglio 2012 la procura di Palermo, con il PM Antonio Ingroia aveva chiesto il rinvio a giudizio di Mannino e altri 11 indagati.
In tale inchiesta Mannino era accusato di violenza o minaccia verso un corpo politico dello Stato.
Nel 2012 Mannino ha chiesto e ottenuto di procedere al processo tramite rito abbreviato. La requisitoria è affidata ai pubblici ministeri Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi.
Il 4 novembre 2015 il GUP di Palermo Marina Petruzzella ha assolto Mannino dall'accusa a lui contestata per "non aver commesso il fatto"[37], sentenza di assoluzione confermata in appello il 22 luglio 2019[38], e anche dalla Corte di Cassazione l'11 dicembre 2020.[39]
sintesi sentenze processo trattativa stato mafia
Indagini
Nel 1998 la Procura della Repubblica di Firenze aprì un'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, scaturita dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi e Vito Ciancimino[1][2][3][4][5]; negli anni successivi, l'indagine passò alle Procure di Caltanissetta e Palermo[6]. Nel 2009 l'inchiesta ricevette nuovo impulso in seguito alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (figlio di Vito), il quale dichiarò di aver fatto da tramite tra il padre e il ROS per giungere ad un accordo mirato alla cessazione delle stragi e alla consegna dei latitanti, che aveva la copertura politica degli allora ministri Nicola Mancino e Virginio Rognoni; inoltre Massimo Ciancimino sostenne di avere ricevuto il "papello" con le richieste di Riina dal mafioso Antonino Cinà con l'incarico di consegnarlo al padre, che però scrisse un altro papello che doveva essere sempre indirizzato a Mancino e Rognoni (il cosiddetto "contro-papello") poiché le richieste di Riina erano, a suo dire, improponibili: tale circostanza venne anche confermata dal fratello di Ciancimino, Giovanni, che riferì ai giudici che il padre gli chiese un parere giuridico sulle richieste del "papello" di Riina[7].
Le indagini, poi sfociate nel processo che attualmente è stato definito in primo grado, sono state svolte dalla Procura di Palermo, in particolare dai magistrati Antonino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, con il coordinamento del Procuratore Aggiunto Vittorio Teresi (in un primo momento vi erano anche i magistrati Antonio Ingroia e Lia Sava).
Le testimonianze di Massimo Ciancimino
In particolare Massimo Ciancimino dichiarò che nel periodo successivo alla strage di via d'Amelio lui e il padre ripresero i contatti con il colonnello Mori e il capitano De Donno per individuare il covo di Riina e per questo aprirono una seconda trattativa con il boss Bernardo Provenzano, che sarebbe durata fino al dicembre 1992, quando Vito Ciancimino venne arrestato: infatti, sempre secondo Ciancimino, il padre gli confidò che il ROS lo voleva togliere di mezzo dopo che aveva ricevuto le carte utili per arrestare Riina; sempre secondo le confidenze del padre, nei mesi successivi la trattativa continuò ed ebbe Marcello Dell'Utri come nuovo tramite al posto di Ciancimino[8][9]. Nell'ottobre 2009 Ciancimino consegnò ai magistrati di Palermo le fotocopie del "papello" di Riina e del "contro-papello"[10] insieme ad altri documenti appartenuti al padre[11][12]; gli esami della Polizia Scientifica accertarono che i documenti erano autentici[7].
In seguito alle dichiarazioni di Ciancimino, le Procure di Palermo e Caltanissetta ascoltarono Claudio Martelli[13], Liliana Ferraro, Fernanda Contri e Luciano Violante[14] come persone informate sui fatti e questi dichiararono di essere stati avvicinati dall'allora colonnello Mori in relazione ai contatti con Vito Ciancimino e che il giudice Paolo Borsellino era a conoscenza di questi contatti[15]; venne ascoltato anche Nicola Mancino, il quale però dichiarò di non averne mai saputo nulla e negò, come aveva già fatto in passato, di aver incontrato al Viminale il giudice Borsellino il 1º luglio 1992, nonostante la testimonianza dell'ex ministro Martelli e le agende del magistrato affermassero il contrario[6][7][16][17]. Per queste ragioni, nel giugno 2012 Mancino venne iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza[18]; anche l'ex ministro Calogero Mannino ricevette un avviso di garanzia in cui si parla genericamente di "pressioni" che Mannino avrebbe esercitato su "appartenenti alle istituzioni" sulla "tematica del 41 bis"[19].
Nello stesso periodo, il detenuto Rosario Pio Cattafi (ex avvocato messinese legato alla Famiglia di Catania) dichiarò ai magistrati che nel giugno 1993 venne incaricato dal dottor Francesco Di Maggio (appena nominato vice direttore del DAP) di contattare il boss Nitto Santapaola al fine di aprire un dialogo per fermare le stragi[20][21][22].
Le testimonianze successive
Nel 2009, in relazione a tale vicenda, sono stati ascoltati come testimoni anche i politici Nicola Mancino, il quale ha dichiarato di non averne mai saputo nulla[23] e Luciano Violante, il quale invece ha dichiarato di essere venuto a conoscenza di questo dialogo tra il Ros e Ciancimino[24]. L'ex Ministro dell'interno, Nicola Mancino, è stato indagato il 9 giugno 2012 dalla procura di Palermo nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato e mafia, con l'accusa di falsa testimonianza[25].
A quanto emerge dai primi risultati dell'indagine avviata nel 2009 (nella quale è stato sentito come testimone anche l'ex ministro Claudio Martelli) la trattativa avrebbe avuto inizialmente due fasi distinte, prima e dopo le stragi che hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino[26].
Le intercettazioni a Nicola Mancino e Giorgio Napolitano
Durante le indagini, la Procura di Palermo sottopose Nicola Mancino ad intercettazioni telefoniche e registrò casualmente alcune telefonate che l'ex ministro fece al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e al dottor Loris D'Ambrosio (consigliere giuridico del Quirinale)[27][28].
La vicenda ha avuto un grande rilievo, dato che Mancino poteva essere intercettato, mentre il Presidente della Repubblica invece non poteva esserlo[29].
In seguito a questo fatto, il Presidente della Repubblica ha sollevato il conflitto di attribuzione, e ha chiesto quindi che le intercettazioni venissero distrutte.
Il Quirinale, il 16 luglio 2012, in una nota in merito alla presunta trattativa Stato-mafia[30] ed alle telefonate di Nicola Mancino al presidente della repubblica Napolitano, per chiedere un appoggio contro i giudici siciliani, Antonio Ingroia, Nino Di Matteo e altri, che stavano valutando la sua posizione processuale[31], scrive[32][33]:
«Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha oggi affidato all'avvocato generale dello Stato l'incarico di rappresentare la presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla Corte costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo per le decisioni che questa ha assunto su intercettazioni di conversazioni telefoniche del Capo dello Stato[34].»
Nel luglio 2012 Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso, chiese al Presidente Napolitano che fossero pubblicate le sue intercettazioni con Mancino, in nome della trasparenza istituzionale e come segno di determinazione nel ricercare la verità[35][36].
Tuttavia nel gennaio 2013 la Corte costituzionale accolse il ricorso del Quirinale contro la Procura di Palermo per conflitto di attribuzione e dispose la distruzione delle intercettazioni tra Napolitano e Mancino[37]. In seguito a queste disposizioni, gli avvocati di Massimo Ciancimino presentarono ricorso contro la distruzione delle intercettazioni presso la Corte di cassazione[38], che però ritenne inammissibile il ricorso: nell'aprile 2013 il giudice per le indagini preliminari di Palermo distrusse le intercettazioni[39].
Sulla distruzione delle intercettazioni è stata avanzata l'ipotesi che possa tuttora esisterne una copia, che potrebbe essere utilizzata come uno strumento di ricatto[40]. Questa vicenda ha coinvolto anche il colonnello dei carabinieri Giuseppe D’Agata, che in passato apparteneva ai servizi segreti.[41]
La testimonianza di Giorgio Napolitano
Il 28 ottobre 2014, Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica Italiana, rispose alle domande dei pubblici ministeri e degli avvocati sulla vicenda della "trattativa Stato-mafia" e ha chiesto che la trascrizione fosse resa pubblica.[42]
Le inchieste sulla P2
Anche la loggia massonica P2 è al centro dell'attenzione per il processo. In particolare, si indaga sui rapporti tra l'ex generale dei carabinieri Mario Mori e Licio Gelli e i contatti dell'ex ufficiale dell'Arma, per anni al SID, con il terrorismo nero. Un ex ufficiale del SID, Mauro Venturi, che negli anni settanta lavorò con Mori, racconta che quest'ultimo gli propose di entrare nella P2.[43]
Le prime sentenze
Nel 1998 la motivazione della sentenza di primo grado del processo per le stragi del 1993 ritenne sufficientemente provati i contatti tra Vito Ciancimino e il ROS, basandosi sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca e su quelle del generale Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, i quali sostennero di avere preso quell'iniziativa per riuscire a catturare qualche latitante e per cercare di impedire altre stragi[44][45]: la sentenza affermò esplicitamente che si trattò di una "trattativa" e che le stragi erano state compiute per costringere lo Stato a scendere a patti con l'organizzazione mafiosa[46].
Nel maggio 2011 il Tribunale di Firenze condannò in primo grado all'ergastolo il boss Francesco Tagliavia, accusato di aver partecipato all'esecuzione delle stragi del 1993 in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Nella sentenza si legge: «Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L'iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia»[47].
Il collegio giudicante di Firenze, che nel marzo 2012 ha condannato una quindicina di boss per la strage di via dei Georgofili, ha dedicato cento delle cinquecentoquarantasette pagine della motivazione della sentenza esclusivamente al movente degli attentati in Continente e alla trattativa tra uomini di stato e mafiosi[48]. Si legge nella prima pagina:
«Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L'iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia.»
Il 17 luglio 2013 la IV Sezione Penale del Tribunale di Palermo ha assolto in primo grado, il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu dei Carabinieri dall'accusa di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Nel corso del dibattimento Massimo Ciancimino era stato più volte ascoltato e aveva prodotto diversi documenti appartenuti al padre Vito, tra cui il cosiddetto papello. Tutti i documenti erano stati verificati dalla difesa dei due imputati che ne aveva contestato la veridicità (tutti, tra l'altro, erano stati presentati in fotocopia). Dopo cinque anni di dibattimento il tribunale di Palermo ha pronunciato la seguente sentenza: "Il Tribunale di Palermo, visti gli articoli 378 e 530 del Codice di procedura penale, assolve Mori Mario e Obinu Mauro dell'imputazione ai medesimi ascritta perché il fatto non costituisce reato. Visto l'articolo 207 del Codice di procedura penale ordina la trasmissione di copia della presente sentenza delle deposizioni rese da Ciancimino Massimo e da Riccio Michele all'ufficio del Procuratore della Repubblica in sede per quanto di sua competenza"[49]. Il Tribunale ha quindi assolto con formula piena Mori e Obinu dalle accusa formulate e ha ravvisato, a carico dei due principali testi dell'accusa, Massimo Ciancimino e Michele Riccio, ai sensi dell'art. 207 del Codice di Procedura Penale, indizi del reato previsto dall'articolo 372 del Codice Penale (falsa testimonianza). Nell'ottobre 2014 è in corso il processo d'appello nei confronti di Mario Mori e Mauro Obinu.
Conseguenze
Il maggiore Antonio Coppola, capo del nucleo investigativo, venne trasferito. Negli stessi mesi in cui saranno sostituiti i vertici investigativi dell'Arma, anche negli uffici del palazzo di giustizia avverrà una massiccia rotazione[50], in base alla turnazione introdotta dalla Riforma Castelli del 2005[51].
Il procuratore di Palermo Francesco Messineo, interrogato alla Camera il 17 luglio 2012, afferma che la trattativa tra lo Stato e la mafia "c'è stata ed è stata reale"[52]:
«Abbiamo impiantato un procedimento, che è alla fase dell'avviso di conclusioni indagini e che verosimilmente si evolverà più avanti, basato sull'ipotesi che la trattativa ci sia stata e sia stata reale. Non mi sembra di poter assolutamente concordare con quelli che parlano di presunta trattativa, salvo poi il successivo vaglio processuale.»
Il processo
Il procedimento di primo grado
Il pool coordinato dal procuratore aggiunto ha firmato la richiesta di processo per i dodici imputati dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Imputati i capimafia Totò Riina e Bernardo Provenzano, ma anche gli ex ufficiali del ROS Mario Mori e Antonio Subranni, i senatori Marcello Dell'Utri e Calogero Mannino, accusati di attentato a un corpo politico. L'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, risponde invece per falsa testimonianza, mentre Giovanni Conso, Adalberto Capriotti e Giuseppe Gargani sono accusati di aver dato false informazioni ai pubblici ministeri.[53]
Il GIP di Caltanissetta, Alessandra Bonaventura Giunta, ritiene che la trattativa stato mafia ci sia stata e che Paolo Borsellino fu ucciso perché, secondo il boss Totò Riina, ostacolava questa trattativa[54]:
«Deve ritenersi un dato acquisito quello secondo cui a partire dai primi giorni del mese di giugno del 1992 fu avviata la cosiddetta 'trattativa' tra appartenenti alle istituzioni e l'organizzazione criminale Cosa nostra.»
Dopo aver interrogato Salvino Madonia, il capomafia che ha partecipato alla riunione di Cosa nostra nella quale i mafiosi decisero l'avvio della strategia stragista[55]. Il GIP Giunta aggiunge anche che "con riferimento al possibile coinvolgimento nella strage di via D'Amelio di soggetti esterni a Cosa nostra non sono emersi elementi di prova utili a formulare ipotesi accusatorie concrete a carico di individui ben determinati".
La prima udienza del processo si è tenuta a Palermo il 27 maggio 2013.[56]
Il 7 novembre 2013 depone il pentito Francesco Onorato, che dice: "Perché Riina accusa sempre lo Stato? Perché è l'unico che sta pagando il conto, mentre lo Stato non sta pagando niente, per questo motivo Riina tira in ballo sempre lo Stato. Ha ragione ad accusare lo Stato, da Violante ad altri. È lo Stato che manovra, prima ci hanno fatto ammazzare Dalla Chiesa i signori Craxi e Andreotti che si sentivano il fiato addosso. Perché Dalla Chiesa non dava fastidio a Cosa Nostra. Poi nel momento in cui l'opinione pubblica è scesa in piazza i politici si sono andati a nascondere. Per questo Riina ha ragione ad accusare lo Stato".[57]
Il 21 novembre 2013 il pentito Nino Giuffrè dice: "Non è che la mafia sale su un carro qualunque. Scegliemmo di appoggiare Forza Italia perché avevamo avuto delle garanzie", "Nella seconda metà del '93 è venuto fuori Marcello Dell'Utri che ha dato garanzie per la risoluzione dei problemi di Cosa nostra. A prescindere dal garantismo di Forza Italia, noi li scegliemmo perché ci diedero garanzie." "Tra la fine del '93 e l'inizio del '94 il posto che era stato tenuto da Vito Ciancimino nel rapporto con Cosa nostra fu preso da Marcello Dell'Utri" e "Nel '93 c'è l'inizio di un nuovo capitolo: si apre un nuovo corso tra Cosa nostra e la Politica. Provenzano all'inizio era un po' freddo poi, parlando di Dell'Utri e di Forza Italia, mi disse ‘Siamo in buone mani’".[58]
Il 12 dicembre 2013 il pentito Giovanni Brusca affermò: "Nel 1991, c'era interesse a contattare Dell’Utri e Berlusconi perché attraverso loro si doveva arrivare a Bettino Craxi, che ancora non era stato colpito da Mani Pulite, perché influisse sull'esito del maxiprocesso". "La sinistra, a cominciare da Mancino, ma tutto il governo, in quel momento storico, sapeva quello che era avvenuto in Sicilia: gli attentati del '93, il contatto con Riina. Sapevano tutto. Che la sinistra sapeva lo dissi a Vittorio Mangano. Gli dissi anche: "I Servizi segreti sanno tutto ma non c'entrano niente." Mangano comprese e con questo bagaglio di conoscenze andò da Dell'Utri".[59]
Il 23 gennaio 2014 il pentito Gioacchino La Barbera afferma che la mafia progettò l'omicidio di Pietro Grasso, che non venne realizzato per problemi tecnici[60]. Rivela inoltre che era stato pensato di distruggere la torre di Pisa con una bomba.[61]
Il 24 gennaio 2014 Giovanni Brusca dice: "Venti giorni dopo la strage di Capaci, vidi Riina a casa di Girolamo Guddo. Mi disse che aveva fatto un papello di richieste, per fare finire le stragi." e "Mi spiegò che avevano risposto, fecero sapere che le richieste erano assai. Ma non c'era una chiusura. E a questo punto Riina mi fece il nome di Mancino, la richiesta era finita a lui, così mi fu spiegato".[62]
Il 30 gennaio 2014 Francesco Di Carlo dice: "Il primo rivale di cosa nostra era Rocco Chinnici. In particolare Nino Salvo faceva come un pazzo", Nino Salvo "ha chiesto a Michele Greco di farci il favore su Chinnici", ossia di fare assassinare il giudice. "Greco non faceva nulla senza parlare con Riina: io ero presente alla Favarella quando Nino Salvo incontrò Michele Greco per chiedere l'intervento di Cosa nostra"[63]. "Ho saputo anche che i cugini Salvo si sono rivolti ad Antonio Subranni per fare chiudere l'indagine sulla morte di Peppino Impastato." e "Badalamenti aveva interessato Nino e Ignazio Salvo per parlare col colonnello. Dopo poco tempo Nino Badalamenti mi ha detto: no, la cosa si è chiusa"[64]. "Per cosa nostra i militari dell'Esercito non sono considerati sbirri. Uno zio di Toto' Riina era maresciallo dell'esercito. E io fin dalla fine degli anni Sessanta avevo rapporti e frequentavo un colonnello dell'esercito applicato alla Presidenza del Consiglio. Lo avevo conosciuto frequentando il generale Vito Miceli (ex capo del SID dell'epoca) e anche il colonnello Santovito. Con quest'ultimo avevo un rapporto più di amicizia: quando andavo a Roma, ci vedevamo e andavamo spesso a pranzo assieme". Di Carlo afferma che Santovito, direttore del Sismi, era consapevole, quando si incontravano, che lui fosse latitante[65]. "Quand'ero detenuto in Inghilterra vennero a trovarmi un tale Giovanni, forse uno dell'esercito, una persona inglese e un altro, che poi scoprii essere Arnaldo La Barbera, vedendo la sua foto sui giornali. Giovanni mi disse che si doveva procedere a fare andare via Falcone da Palermo, mi disse tante cose brutte su Falcone, che stava facendo grossi danni. Bisognava mandarlo fuori al più presto". "Non mi hanno mai parlato di volere uccidere Falcone ma solo di farlo andare via da Palermo: io a quel punto mandai un biglietto a Salvo Lima, e scrissi che questi amici potevano essere utili a tutti, perché avevano anche promesso di aiutarmi.".[66]
Il 13 febbraio 2014 viene ascoltato Riccardo Guazzelli[67], che afferma: "Dopo l'omicidio di Salvo Lima, l'onorevole Mannino temeva per la sua vita. Lo confessò lui stesso a mio padre: "Hanno ammazzato Lima, il prossimo potrei essere io", gli disse.[68]
Il 13 marzo 2014 depone il pentito Spatuzza, che afferma: "Per le stragi di Capaci e via d'Amelio diciamo che erano anche miei nemici, in quell'ottica mi andava anche bene l'atto terroristico con cui vennero eseguite. Ma collocare più di cento chili di esplosivo in una stradina abitata non è cosa che appartiene a Cosa Nostra." (Riferendosi alla strage di via dei Georgofili a Firenze)[69] e: "Nel 1997, anni prima di cominciare a collaborare, durante un colloquio investigativo con l'allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e con Piero Grasso, dissi 'fate attenzione a Milano 2'. Stavamo per salutarci e io mi sentivo di dire qualcosa anche se ancora non ero pentito. Ho cercato di dare indicazioni nello specifico".[70]
Il 27 giugno 2014 il pentito Filippo Malvagna dice che Marcello D'Agata gli aveva detto: "Dobbiamo dire che si deve votare per Berlusconi, per un nuovo partito che sta per nascere. Perché questo qua sarà la nostra salvezza" e aggiunge: "D'Agata mi disse inoltre che nel giro di pochi anni avrebbero attenuato il 41 bis e smantellato la legge sui collaboratori di giustizia e che il partito di Berlusconi sarebbe stata la nostra salvezza".[71]
Il 3 luglio 2014 il pentito Maurizio Avola afferma: "Dovevamo uccidere il magistrato Antonio Di Pietro. C'era stato chiesto durante un incontro, organizzato all'hotel Excelsior di Roma al quale parteciparono Cesare Previti, il finanziere Pacini Battaglia, il boss catanese Eugenio Galea, il luogotenente di Nitto Santapaola Marcello D'Agata, Michelangelo Alfano ed un certo Sariddu che poi scoprii essere Saro Cattafi, o meglio Rosario Pio Cattafi soggetto in contatto con i Servizi Segreti. L'omicidio era voluto e sollecitato dal gruppo politico-imprenditoriale presente a quella riunione." e dice inoltre che il boss Eugenio Galea gli aveva detto: "Stiamo aspettando un segnale forte da Dell'Utri e da Michelangelo Alfano, un grosso massone, che non conosco".[72]
Il 10 luglio 2014 Antonino Galliano riporta: "Mimmo Ganci non lo vedevo da qualche giorno. Quando lo rividi mi disse che era stato fuori perché aveva accompagnato Totò Riina in un luogo imprecisato della Calabria per partecipare ad una riunione a cui partecipavano anche generali, ministri, politici e esponenti delle istituzioni".[73]
L'11 luglio 2014 depone il presidente del Senato Pietro Grasso che afferma: "Avevo incontrato il senatore Mancino durante la cerimonia di auguri natalizi al presidente della Repubblica, nel dicembre del 2011. In quella occasione mentre eravamo al guardaroba in attesa dei nostri soprabiti, Mancino mi apostrofò dicendo che si sentiva perseguitato dalle indagini: ‘Qualcosa lei deve fare’, mi disse. Risposi che l'unico modo era il potere di avocazione, ma non c'erano i presupposti".[74]
Il 17 aprile 2015 il pentito Carmelo D'Amico dice: “Angelino Alfano è stato portato da Cosa nostra che lo ha prima votato ad Agrigento, ma anche dopo. Poi Alfano ha voltato le spalle ai boss facendo leggi come il 41 bis e sulla confisca dei beni”. “Cosa nostra ha votato anche Schifani, poi hanno voltato le spalle, e la mafia non ha votato più Forza Italia”. “I boss votavano tutti Forza Italia, perché Berlusconi era una pedina di Dell’Utri, Riina, Provenzano e dei Servizi. Forza Italia è nata perché l'hanno voluta loro”. “All'epoca i politici hanno fatto accordi con Cosa nostra, poi quando hanno visto che tutti i collaboratori di giustizia che sapevano non hanno parlato, si sono messi contro Cosa nostra, facendo leggi speciali, dicendo che volevano distruggere la mafia”. D'Amico racconta inoltre che a Barcellona Pozzo di Gotto era presente una loggia massonica: “Ne facevano parte uomini d'onore, avvocati e politici, e la comandava il senatore Domenico Nania: a questa apparteneva anche Dell’Utri”. (Nino Rotolo) “Mi raccontò che i servizi avevano fatto sparire dal covo di Riina un codice di comunicazione per mettersi in contatto con politici e gli stessi agenti dei servizi”. “Mi disse anche che Provenzano era protetto dal Ros e dai Servizi e non si è mai spostato da Palermo, tranne quando andò ad operarsi di tumore alla prostata in Francia”. “Rotolo ne parlava con Vincenzo Galatolo: all'inizio non lo chiamavano per nome, ma lo definivano cane randagio, poi io chiesi di chi parlavano e mi risposero che si trattava di Di Matteo, e che aspettavano da un momento all'altro la notizia dell'attentato”. “Era stabilito che il dottor Di Matteo doveva morire – ha aggiunto D'Amico – Rotolo mi ha raccontato che i servizi segreti volevano morto prima il dottor Antonio Ingroia, poi Di Matteo. E siccome Provenzano non voleva più le bombe, dovevamo morire con un agguato”. “A volere la morte di Di Matteo erano sia Cosa Nostra che i Servizi perché stava arrivando a svelare i rapporti dei Servizi come fece a suo tempo il dottor Giovanni Falcone”. “Io dovevo uscire da lì a poco dal carcere e si parlava di delegare me per portare avanti questa cosa”. A proposito dei servizi segreti afferma: “Arrivano dappertutto ed è per questo che altri pentiti come Giovanni Brusca e Nino Giuffrè non raccontano tutto quello che sanno sui mandanti esterni delle stragi”. “I servizi organizzano anche finti suicidi in carcere: per questo voglio chiarire che io godo di ottima salute e non ho nessuna intenzione di suicidarmi”.[75]
Il 7 maggio 2015 il boss pentito Vito Galatolo dice: "Quando sapemmo che l'artificiere che doveva partecipare all'attentato al pm Di Matteo non era di Cosa Nostra, capimmo che dietro al piano c'erano soggetti estranei alla mafia, apparati dello Stato, come nelle stragi del '92. Matteo Messina Denaro ci rassicurò scrivendoci che comunque avevamo le giuste coperture.", "Cosa Nostra quantificò in 500 mila euro la somma necessaria per mettere in atto l'attentato nei confronti del Pm Di Matteo. La fase operativa era giunta, tra dicembre 2012 e i primi del 2013, ad uno stadio molto avanzato. Biondino aveva comprato il tritolo tramite i calabresi. Io l'ho visto personalmente, in due fusti.", "Di Matteo si stava intromettendo in un processo che non doveva neanche iniziare, quello sui rapporti tra Stato e mafia. E si doveva fermare perché non doveva scoprire certe situazioni.", "C'era un via-vai di agenti dei Servizi segreti nelle carceri per avere contatti con capimafia al 41 bis. Uno che ci parlava spesso era Nino Cinà."[76]
Il 25 giugno 2015 l'ambasciatore e diplomatico italiano Francesco Paolo Fulci, ex presidente del Cesis, ha rivelato, durante il processo sulla trattativa, che le telefonate rivolte all'Ansa in cui l'organizzazione terroristica Falange Armata rivendicava omicidi e stragi durante gli anni novanta provenivano tutte dalle sedi dell'allora Sismi[77].
Fra le motivazioni della sentenza di condanna all'ergastolo in appello per il boss di Brancaccio Francesco Tagliavia per la strage di via dei Georgofili del 27 maggio del 1993, si legge che, secondo la corte d'Assise, le bombe in continente facevano parte di un progetto terroristico e Cosa nostra trovò interlocutori tra uomini politici e istituzioni al fine di togliere l'applicazione del 41 bis per oltre 300 detenuti mafiosi[78]. In particolare Marcello Dell'Utri nelle ultime fasi della trattativa, siglò un nuovo patto con Cosa nostra[79][80][81][82][83].
La sentenza in abbreviato
L'ex ministro Calogero Mannino, unico imputato che aveva scelto il rito abbreviato, è stato assolto il 4 novembre 2015 dall'accusa di minaccia a corpo politico dello Stato "per non aver commesso il fatto"[84]. L'assoluzione è stata confermata in Appello, il 3 febbraio 2020, ed in Cassazione, l'11 dicembre 2020, divenendo definitiva.
La sentenza di primo grado
Il 20 aprile 2018 viene pronunciata la sentenza di primo grado, con la quale vengono condannati a dodici anni di carcere Mario Mori, Antonio Subranni, Marcello Dell'Utri, Antonino Cinà, ad otto anni Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino, a ventotto anni Leoluca Bagarella; sono prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti di Giovanni Brusca, e viene assolto l'ex ministro dell'interno Nicola Mancino.[85] La sentenza è stata emessa dalla Corte d'Assise di Palermo presieduta dal dott. Alfredo Montalto, in un'aula stracolma, alla presenza dei Pubblici Ministeri Antonino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi.
Il 13 luglio 2020 veniva prescritto poi Massimo Ciancimino che rispondeva di calunnia aggravata all'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e concorso in associazione mafiosa e la cui posizione era stata stralciata dai giudici su istanza dei suoi avvocati.[86]
Il secondo grado
Il 29 aprile 2019 inizia il processo d'appello a Palermo. Il 24 maggio 2021 si presenta in aula per la prima volta Marcello Dell'Utri.[87]
Il 7 giugno 2021 la Procura generale di Palermo ha chiesto alla corte d'assise d'appello, presieduta da Angelo Pellino, di confermare le condanne inflitte in primo grado a boss, ex ufficiali dei carabinieri e politici imputati di minaccia a Corpo politico dello Stato.
Il 23 settembre dello stesso anno la Corte d'assise d'appello di Palermo ha assolto gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno perché "il fatto non costituisce reato" e l'ex senatore Marcello Dell'Utri "per non aver commesso il fatto", accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato, mentre sono prescritte le accuse a Giovanni Brusca, viene ridotta a ventisette anni la pena al boss Leoluca Bagarella e viene confermata la condanna a dodici anni del capomafia Antonino Cinà.[88].
Il 6 agosto 2022 sono depositate le motivazioni della sentenza che stabilisce che "la trattativa ci fu", ma per opera di una "improvvida iniziativa", nell'ottica di voler evitare ulteriori stragi, degli ufficiali dei Carabinieri e non politica.[89][90][91]
La pronuncia della Cassazione
Il 27 aprile 2023 la Corte di Cassazione ha confermato l'assoluzione dell'ex senatore Marcello Dell'Utri. Sono stati definitivamente assolti "per non aver commesso il fatto" gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno[92].
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