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domenica 8 settembre 2024

Sintesi omicidio Ninni Cassarà e Salvatore Antiochia

L'assassinio Il 6 agosto 1985, rientrando dalla questura nella sua abitazione di via Croce Rossa 81 a Palermo a bordo di un'Alfetta e scortato da due agenti, scese dall'auto per raggiungere il portone della sua abitazione quando un gruppo di nove uomini, guidati da Antonino Madonia, Giuseppe Greco e Giuseppe Giacomo Gambino[3] appostati sulle finestre e sui piani dell'edificio di fronte, sparò sull'Alfetta con fucili mitragliatori d'assalto Ak-47[4]. L'agente Roberto Antiochia, che era uscito dall'auto per aprire lo sportello a Cassarà, venne ucciso dagli spari e cadde a terra davanti al portone di ingresso dello stabile. Natale Mondo, l'altro agente di scorta, restò illeso, riuscendosi a riparare sotto l'automobile bersagliata dai proiettili dei killer (ma sarà ucciso anch'egli il 14 gennaio 1988). Cassarà, colpito dai killer quasi contemporaneamente ad Antiochia, spirò sulle scale del palazzo in cui abitava, tra le braccia della moglie Laura, accorsa in lacrime dopo aver visto l'accaduto insieme alla figlia dal balcone della propria abitazione. Antonino Cassarà è tumulato nel cimitero di Sant'Orsola a Palermo. Dopo l'assassinio (o contemporaneamente a esso) sparisce in questura la sua agenda, dove si presume fossero annotate importanti informazioni. Il caso Salvatore Marino Le prime indagini sull'omicidio di Giuseppe Montana[5] portarono verso Salvatore Marino[6], un calciatore venticinquenne appartenente ad una famiglia di pescatori[7]. Fu condotto in questura e nel corso dell'interrogatorio emersero contraddizioni e smentite. Mentre un testimone sosteneva che Marino si trovasse sul luogo dell'assassinio di Montana proprio in quel giorno, Marino sostenne invece di essere stato a Palermo, venendo poi smentito dai testimoni che chiamò a conferma[8]. Dalla perquisizione nella sua casa emersero 34 milioni di lire, che Marino sostenne avere ricevuto dalla squadra di calcio mentre i dirigenti della squadra smentirono[8]. Nella sua abitazione fu rinvenuta una maglietta sporca di sangue[8]. Gli inquirenti furono quindi indotti a ritenerlo quantomeno favoreggiatore dei sicari. Presi, secondo il giudice istruttore[9], da "isteria collettiva"[10] alcuni poliziotti lo torturarono sino ad ucciderlo[8][10]. Il ragazzo venne portato in ospedale quando ormai non c'era più nulla da fare[8]. I giornali pubblicarono la fotografia del suo cadavere in obitorio scattata da Letizia Battaglia[8]. Familiari e amici portarono la bara bianca di Salvatore Marino in giro per mezza città al grido di "Poliziotti assassini"[8][10]. Il 5 agosto 1985, verso sera, fu diffusa la notizia che l'allora Ministro dell'interno Oscar Luigi Scalfaro aveva rimosso il capo della squadra mobile Francesco Pellegrino, il capitano dei carabinieri Gennaro Scala e il dirigente della sezione anti-rapine Giuseppe Russo[8]. Condanne La prima pagina del quotidiano la Repubblica, il giorno dopo l'agguato Furono celebrati due distinti processi nei confronti di mandanti ed esecutori, che si conclusero con numerose condanne. La sentenza di primo grado, emessa il 17 febbraio 1995, condannò i principali esponenti della "Commissione" di Cosa Nostra (Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Francesco Madonia) all'ergastolo in qualità di mandanti, con sentenza poi confermata nel 1998 dalla Cassazione[11]. Nel 1996 i collaboratori di giustizia Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo e Giovan Battista Ferrante si autoaccusarono di aver fatto parte del gruppo di fuoco mafioso che compì l'agguato di via Croce Rossa, che si aggiunsero alle precedenti rivelazioni di Francesco Marino Mannoia e Salvatore Cancemi[3][12]; il processo bis nei confronti di ulteriori mandanti e degli esecutori materiali si concluse nel 1998 con la condanna all'ergastolo di Antonino Madonia, Salvatore Buscemi, Giuseppe Calò, Antonino Geraci, Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Raffaele e Domenico Ganci, Giuseppe Lucchese, Salvatore Biondino, Salvatore Biondo (classe '56), Salvatore Biondo (classe '57), Nicolò Di Trapani, Giuseppe e Vincenzo Galatolo e Giovanni Motisi mentre Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo e Giovan Battista Ferrante ebbero sedici anni di reclusione ciascuno poiché vennero riconosciute le attenuanti e lo sconto di pena per la collaborazione con la giustizia; Giuseppe Greco detto "Scarpuzzedda", Mario Prestifilippo e Giuseppe Giacomo Gambino vennero dichiarati non giudicabili in quanto morti prima del processo[13]. La sentenza venne poi confermata in Appello e in Cassazione nel 2002, divenendo così definitiva[14].

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