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domenica 15 settembre 2024

prowler americano era per la guerra elettronica ed in esercitazione sera strage di Ustica

Quel fatidico giorno, la portaerei americana in navigazione un centinaio di chilometri a sud di Trapani era impegnata in un’esercitazione notturna che comprendeva i cieli del Mediterraneo centrale, della Sicilia e del Tirreno meridionale. Nell’ambito dell’esercitazione, dal nome sconosciuto, un EA-6B Prowler, aereo imbarcato da guerra elettronica e attacco antiradar, fonte: https://www.officinadeisaperi.it/eventi/ustica-anche-questo-governo-e-inadempiente-da-il-manifesto/

perizia balistica esplosivistica Ibisch e altri poco probabile tesi missile e bomba

La Perizia balistica esplosivistica IBISCH e altri del 14.4.1994 (Parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, Capitolo XXX pag. 1700 della sentenza-ordinanza) ritiene poco probabile tanto l'ipotesi del missile quanto l'ipotesi dell'esplosione di una bomba a bordo. Pagina 24 Sentenza tribunale civile di Palermo 2011 Proto Pisani

Commissione luzzatti p 65 no collisione in volo

L'ipotesi della collisione in volo cade di fronte a queste due evidenze: 1) le tracce radar escludono che l'l-TIGI sia venuto in collisione con altro aeromobile; 2) lo stato dei cuscini, come già detto, non può giustificarsi con una collisione in volo

Commissione Luzzatti no cedimento strutturale

pagina 63 L'aeromobile, inoltre, era in condizioni di navigabilità, nè si conoscono precedenti di cedimenti strutturali sponta- nei di DC 9 che abbiano provocato effetti catastrofici

venerdì 13 settembre 2024

sintesi caso dell'utri

15 dicembre 2010 | Alexander H. Bell Il caso Dell'Utri nei giudizi di primo e secondo grado (aspettando la Cassazione) Scheda riassuntiva delle decisioni del Tribunale e della Corte d'Appello di Palermo Sommario: 1. La sentenza del Tribunale di Palermo (11 dicembre 2004) 1.1 In fatto 1.2 In diritto 2. La sentenza della Corte d’appello (29 giugno 2010) 2.1 In fatto 2.1.1 Le dichiarazioni del pentito Spatuzza 2.2. In diritto 1. La sentenza del Tribunale di Palermo (11 dicembre 2004) Il processo di primo grado a carico di Marcello Dell’Utri si apre nel novembre del 1997 e si conclude nel dicembre del 2004 con la condanna dell’imputato a nove anni di reclusione per i delitti di concorso esterno in associazione semplice (ex artt. 110 e 416 c.p., aggravato ai sensi dei c. 4 e 5 c.p.) e di concorso esterno in associazione mafiosa (ex artt. 110 e 416 bis c.p., aggravato ai sensi dei c. 4 e 6 c.p.). 1.1 In fatto All’esito del dibattimento il Tribunale di Palermo, valutando in ordine cronologico tutta una serie di episodi che vedono come protagonista l’imputato nell’arco di un trentennio (dai primi anni Settanta sino alla fine del 1998), ritiene dimostrato che: - per l’intero periodo contestatogli il Dell’Utri ha contatti diretti e personali con alcuni esponenti di spicco di Cosa Nostra (tra gli altri, Stefano Bontate, Girolamo Teresi, Vittorio Mangano e Gaetano Cinà, coimputato nel medesimo procedimento); - verso la metà degli anni Settanta il Dell’Utri avvia un’attività di mediazione tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, consentendo alla prima di ottenere dal secondo somme consistenti di denaro in cambio della garanzia che l’associazione mafiosa si asterrà dal porre in essere atti lesivi nei confronti dello stesso Berlusconi e dei suoi familiari; a ulteriore suggello di questo accordo, Dell’Utri si adopera per far assumere Vittorio Mangano – uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova – presso la villa di Arcore di Berlusconi; - negli anni Ottanta il Dell’Utri svolge un ruolo di mediazione tra Cosa Nostra e la Fininvest, consentendo all’azienda milanese – che in quel periodo è impegnata a diffondere su tutto il territorio nazionale i programmi televisivi dei canali di sua proprietà – di “mettersi a posto” con il sodalizio criminale, pagando la “protezione” delle antenne televisive che dovranno essere installate in Sicilia; - all’inizio degli anni Novanta il Dell’Utri svolge ancora una volta il ruolo di mediatore tra Cosa Nostra e il gruppo Fininvest – in questo caso al fine di comporre i problemi sorti dopo alcuni attentati perpetrati dalla mafia catanese contro un magazzino della Standa di Catania –, anche in quest’occasione consentendo al sodalizio criminale di conseguire illeciti guadagni; - all’inizio degli anni Novanta il Dell’Utri si serve di alcuni esponenti di Cosa Nostra trapanese per tentare di estorcere denaro all’allora presidente della “Pallacanestro Trapani”, nell’ambito di una sponsorizzazione della società sportiva da parte della Birra Messina che, tramite Publitalia, aveva sottoscritto un contratto dell’importo di un miliardo e mezzo di lire; - tra il 1993 e il 1994 il Dell’Utri si interessa per consentire al figlio di Giuseppe D’Agostino, uomo vicino ai fratelli Graviano, di effettuare un provino al Milan; - in vista delle elezioni del 27 marzo 1994, il Dell’Utri conclude un accordo con esponenti di Cosa Nostra, in forza del quale, in cambio dell’appoggio elettorale a Forza Italia da parte del sodalizio elettorale, lo stesso Dell’Utri promette il suo interessamento per presentare nel gennaio del 1995 proposte favorevoli a Cosa Nostra in tema di giustizia (modifica del 41 bis, sbarramento per gli arresti relativi al 416 bis); - alla fine degli anni Novanta Dell’Utri stipula un nuovo accordo elettorale con Cosa Nostra, avente per oggetto le elezioni europee del 1999, in forza del quale il sodalizio criminale avrebbe dovuto favorire l’elezione di Dell’Utri, anche per sottrarlo ai suoi problemi giudiziari. In conclusione, il Tribunale ritiene dimostrato che il Dell’Utri – per oltre un trentennio (dall’inizio degli anni Settanta sino alla fine del 1998) – abbia mantenuto rapporti diretti e personali con importanti esponenti di Cosa Nostra e abbia altresì svolto un’intensa attività di mediazione tra questi e Silvio Berlusconi, così fornendo un concreto e consapevole contributo al consolidamento e rafforzamento del sodalizio criminale. 1.2 In diritto Ai fini della qualificazione giuridica delle condotte dell’imputato, il Tribunale ritiene di distinguere due diversi periodi, segnati dall’intervenuta introduzione nel 1982 del delitto di associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.). Il Tribunale riconosce quindi l’imputato colpevole dei due diversi delitti – legati dal vincolo della continuazione ex art. 81 c. 2 c.p. – di concorso esterno in associazione semplice per i fatti antecedenti il 1982 e di concorso esterno in associazione mafiosa per le condotte poste in essere successivamente all’entrata in vigore dell’art. 416 bis c.p., e per l’effetto lo condanna a nove anni di reclusione. [sommario] 2. La sentenza della Corte d’appello (29 giugno 2010) La sentenza di primo grado viene impugnata sia dalla difesa di Marcello Dell’Utri[1] sia, in via incidentale, dal PM. Il processo d’appello si celebra presso la Corte d’appello di Palermo e si conclude il 29 giugno del 2010 con la condanna dell’imputato a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa (ex artt. 110 e 416 bis c.p., aggravato ai sensi dei c. 4 e 6). 2.1 In fatto Nel corso dell’istruttoria dibattimentale la Corte d’appello di Palermo riesamina analiticamente tutti gli episodi contestati all’imputato in primo grado, confermando la sentenza impugnata in merito alla sussistenza: - di rapporti personali e diretti di Dell’Utri con alcuni esponenti di spicco di Cosa Nostra; - dell’attività di mediazione avviata da Dell’Utri alla metà degli anni Settanta tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, al fine di “proteggere” quest’ultimo – dietro pagamento di ingenti somme di denaro – da possibili attentati del sodalizio mafioso, nella quale si inserisce altresì l’assunzione di Vittorio Mangano presso la villa di Arcore di Berlusconi; - dell’ulteriore attività di mediazione svolta da Dell’Utri negli anni Ottanta tra Cosa Nostra e la Fininvest, che ha permesso all’azienda milanese di “mettersi a posto” con il sodalizio criminale, pagando la “protezione” delle antenne televisive installate in Sicilia; - dell’episodio verificatosi all’inizio degli anni Novanta, quando il Dell’Utri ricorre ad alcuni esponenti di Cosa Nostra di Trapani per tentare di estorcere denaro all’allora presidente della “Pallacanestro Trapani”. Viceversa, la Corte d’appello ritiene che non sia stata fornita prova certa dei seguenti episodi: - l’attività di mediazione che il Dell’Utri avrebbe svolto tra Cosa Nostra e il gruppo Fininvest a seguito degli attentati al magazzino della Standa di Catania; - l’intervento di Dell’Utri che avrebbe consentito al figlio di Giuseppe D’Agostino, uomo vicino ai fratelli Graviano, di effettuare un provino al Milan; - i due accordi di scambio che Dell’Utri avrebbe concluso con Cosa Nostra in vista – rispettivamente – delle elezioni politiche del 1994 e delle elezioni europee del 1999. In sintesi: i giudici di secondo grado ritengono provato che il Dell’Utri abbia svolto “un’attività di mediazione quale canale di collegamento tra l’associazione mafiosa Cosa Nostra, in persona del suo più influente esponente dell’epoca Stefano Bontate, e Silvio Berlusconi” (pag. 628) e che tale attività sia proseguita “anche dopo la morte di Stefano Bontate nell’aprile del 1981 e l’ascesa in seno all’associazione mafiosa di Salvatore Riina”, fino al 1992. Viceversa, la Corte d’appello esclude che sia stata fornita prova certa di ulteriori contributi da parte dell’imputato agli scopi del sodalizio successivamente al 1992, e sul punto riforma la sentenza di primo grado – che aveva invece ritenuto che il contributo di Dell’Utri a Cosa Nostra si fosse protratto sino al 1998 –. 2.1.1 Le dichiarazioni del pentito Spatuzza Ancora in punto di fatto, merita infine evidenziare – anche in considerazione del forte impatto mediatico che ha avuto questa circostanza – che la Corte d’appello, in aggiunta agli elementi che erano già emersi nel corso del giudizio di primo grado a carico di Dell’Utri, vaglia altresì le dichiarazioni rese nel corso del giudizio d’appello da Gaspare Spatuzza, collaboratore di giustizia che, nel corso dell’udienza del 4 dicembre 2009, aveva riferito di: presunti interessi economici comuni tra i fratelli Graviano, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, con riferimento in particolare all’apertura di un punto vendita Standa nel quartiere Brancaccio di Palermo; un presunto incontro presso un bar di Roma con Giuseppe Graviano, esponente di Cosa Nostra palermitana, nel corso del quale quest’ultimo avrebbe affermato che Berlusconi e Dell’Utri “ci avevano messo, praticamente, a noi il paese nelle mani”. Sul punto, la Corte d’appello afferma, in primo luogo, che “il giudizio sull’attendibilità dello Spatuzza, con riferimento a quanto dallo stesso affermato sui fatti ritenuti di rilievo nel presente giudizio, non può che essere negativo” (pag. 488); e, in secondo luogo, evidenzia “anche l’assoluta mancanza di qualsivoglia riscontro individualizzante che supporti, in conformità al criterio fissato dall’art. 192 comma 3 c.p.p., le dichiarazioni già vaghe e generiche, rese da Gaspare Spatuzza nei confronti di Marcello Dell’Utri”. 2.2 In diritto La Corte d’appello di Palermo riforma la sentenza di primo grado nella parte in cui, avendo ritenuto che Dell’Utri avesse svolto un’attività di mediazione tra Cosa Nostra e Berlusconi già a partire dai primi anni settanta, proseguendola poi sino agli anni novanta, aveva riconosciuto l’imputato colpevole dei due diversi delitti – legati dal vincolo della continuazione ex art. 81 c. 2 c.p. – di concorso esterno in associazione semplice per i fatti antecedenti il 1982 e di concorso esterno in associazione mafiosa per le condotte poste in essere successivamente all’entrata in vigore dell’art. 416 bis c.p. In particolare, i giudici di secondo grado sviluppano il seguente ragionamento: il concorso esterno in associazione mafiosa, quando sia realizzato mediante plurimi contributi agli scopi del sodalizio, ha natura giuridica di reato progressivo permanente; qualora tali contributi siano stati posti in essere fin da prima dell’introduzione della fattispecie di associazione mafiosa di cui all’art. 416 bis, e siano proseguiti anche successivamente, integrano tutti un unico fatto di reato, soggetto alla disciplina dettata dalla norma posteriore; in applicazione di tale principio, l’imputato deve essere ritenuto colpevole del solo delitto di concorso esterno in associazione mafiosa di cui all’art. 416 bis c.p., nel quale deve considerarsi assorbito il disvalore dei contributi apportati dall’imputato anteriormente al 1982. In ragione dei suddetti motivi di fatto (retrodatazione dell’ultimo contributo al 1992, laddove la sentenza di primo grado aveva invece ritenuto che la condotta fosse proseguita sino al 1998) e di diritto (responsabilità per il solo delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, laddove la sentenza di primo grado aveva invece ritenuto l’imputato colpevole dei due diversi delitti – legati dal vincolo di continuazione – di concorso esterno in associazione semplice e di concorso esterno in associazione mafiosa) la Corte d’appello ridetermina la pena da infliggere al Dell’Utri da nove a sette anni di reclusione. [sommario] [1] La sentenza è stata altresì impugnata dalla difesa di Gaetano Cinà, coimputato nel medesimo procedimento. La Corte di Cassazione scrive la parola fine sul processo Dell'Utri Cass., Sez. I, 9 maggio 2014 (dep. 1 luglio 2014), n. 28225, Pres. Siotto, Rel. Cassano, ric. Dell'Utri 1. Premessa. Il 1° luglio 2014, con il deposito delle motivazioni della sentenza n. 28225, pronunciata dalla sezione I della Corte di Cassazione, si è chiuso, dopo diciassette anni, il processo penale a carico dell'ex senatore Marcello Dell'Utri, condannato in via definitiva alla pena di sette anni di reclusione per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa. Dopo un breve riepilogo delle principali tappe che hanno segnato il cammino della complessa vicenda processuale che ha riguardato lo storico collaboratore dell'ex premier Silvio Berlusconi, di seguito si riassumeranno le osservazioni che hanno condotto la Cassazione a confermare in toto la sentenza di condanna pronunciata dalla Corte d'appello di Palermo. 2. Gli antefatti a) La sentenza del Tribunale Il dibattimento di primo grado del processo Dell'Utri prende avvio, davanti al Tribunale di Palermo, nel novembre del 1997 e si conclude l'11 dicembre 2004, con la condanna a nove anni di reclusione dell'allora senatore di Forza Italia, riconosciuto colpevole dei delitti di concorso esterno in associazione semplice e di concorso esterno in associazione mafiosa, legati dal vincolo della continuazione ai sensi del capoverso dell'art. 81 c.p. In motivazione, i giudici palermitani scrivono che l'istruttoria dibattimentale ha dimostrato che l'imputato ha intrattenuto, a partire dalla metà degli anni Settanta sino alla fine degli anni Novanta, rapporti diretti e personali con esponenti di spicco di Cosa Nostra e ha altresì svolto, nello stesso periodo, un'intensa e costante attività di mediazione tra questi e Silvio Berlusconi; attività di mediazione vòlta, in un primo momento, a garantire all'ex premier protezione per sé e per la propria famiglia, e, successivamente, a sostenerne l'attività imprenditoriale e politica, in cambio di cospicue somme di denaro, che lo stesso Dell'Utri provvedeva a versare nelle casse di Cosa Nostra, così contribuendo a consolidare il potere del sodalizio criminale. b) La sentenza della Corte d'appello La sentenza di primo grado viene impugnata sia dalla difesa dell'imputato sia, in via incidentale, dal Procuratore della Repubblica di Palermo. Al termine del dibattimento di secondo grado, la Corte d'appello di Palermo, con sentenza del 29 giugno 2010, condanna Dell'Utri a sette anni di reclusione per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa. L'abbassamento della pena (nove anni di reclusione in primo grado, sette anni in appello) ha una duplice spiegazione. In punto di fatto, anzitutto, i giudici di seconde cure, pur confermando che l'imputato, sin dalla prima metà degli anni Settanta, ha svolto un importante ruolo di collegamento tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra, ritengono tuttavia che detta attività di mediazione - e il conseguente contributo al rafforzamento dell'associazione mafiosa - sarebbe cessata nel 1992, anziché nel 1998, come sostenuto dal Tribunale. In punto di diritto, poi, la Corte d'appello, diversamente dal giudice di primo grado - che, come detto, aveva riconosciuto l'imputato colpevole dei due diversi delitti di concorso esterno in associazione semplice e di concorso esterno in associazione mafiosa -, afferma che, in caso di molteplici contributi a una associazione mafiosa, commessi prima e dopo l'entrata in vigore della fattispecie di cui all'art. 416 bis c.p., che risale al 1982, si applica il solo delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, che assorbe in sé il disvalore dei contributi apportati anteriormente al 1982. Conseguentemente, la Corte d'appello condanna il Dell'Utri per la sola fattispecie di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., rideterminando la pena a sette anni di reclusione. c) La prima sentenza della Cassazione Il 9 marzo 2012, la V sezione penale della Corte di Cassazione, investita dei ricorsi del Procuratore generale presso la Corte d'appello e dell'imputato, annulla con rinvio la sentenza di secondo grado. L'annullamento, tuttavia, non investe in toto la pronuncia della Corte palermitana. I giudici di legittimità, infatti, suddividono il periodo rilevante per l'imputazione (che il giudice di seconde cure aveva fissato nell'arco temporale 1974-1992) in tre diversi sotto-periodi - un primo periodo, dal 1974 al 1977; un secondo periodo, dal 1978 al 1982; un terzo periodo, dal 1983 al 1992 - e, a proposito del primo sotto-periodo, confermano la sentenza impugnata nella parte in cui quest'ultima aveva ritenuto dimostrato che il Dell'Utri, nel 1974, avesse favorito la stipulazione di un accordo tra Silvio Berlusconi e gli allora vertici di Cosa Nostra - accordo in forza del quale il primo avrebbe versato ai secondi cospicue somme di denaro in cambio di protezione per sé e per la propria famiglia -, e che, nei tre anni successivi, si fosse occupato di garantire l'esecuzione di tale accordo, provvedendo personalmente a consegnare il denaro di Berlusconi a esponenti dell'associazione mafiosa. Le censure della Cassazione si appuntano, invece, sui due segmenti temporali successivi, rispettivamente indicati nel quadriennio 1978-1982 e nel successivo decennio 1983-1992. Per quanto riguarda il periodo 1978-1982, i giudici di legittimità rilevano anzitutto che, stando al materiale probatorio disponibile, in quegli anni il Dell'Utri avrebbe momentaneamente interrotto la propria collaborazione professionale con Silvio Berlusconi, per svolgere un'esperienza lavorativa alle dipendenze di un altro imprenditore (Rapisarda), e osservano quindi che la Corte d'appello non avrebbe adeguatamente motivato in ordine alle modalità con le quali l'imputato, una volta allontanatosi dalla sfera imprenditoriale di Berlusconi, avrebbe comunque continuato svolgere la propria attività di intermediazione tra l'amico imprenditore e Cosa Nostra. A detta della Cassazione, dunque, per il periodo 1978-1982, nella sentenza d'appello mancavano argomenti sufficienti a dimostrare sia l'elemento oggettivo sia l'elemento soggettivo del concorso esterno. Quanto, infine, al periodo 1983-1992, i giudici di legittimità, da un lato, confermano la sentenza impugnata nella parte in cui essa afferma che, in quest'arco temporale, Berlusconi avrebbe versato a Cosa Nostra cospicue somme di denaro - denaro che, a questo punto, non era più finalizzato a proteggere la famiglia Berlusconi, bensì a consentire a quest'ultimo di svolgere senza danni la propria attività imprenditoriale sul territorio siciliano - e che Dell'Utri, nel frattempo tornato alle dipendenze dell'amico imprenditore, si sarebbe occupato di far pervenire i soldi alle cosche mafiose; dall'altro lato, però, affermano che la Corte d'appello non avrebbe adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza del dolo richiesto in capo al concorrente esterno. In tema di elemento soggettivo, la Cassazione ritiene infatti che i giudici palermitani non avrebbero tenuto in debito conto tutta una serie di episodi verificatisi nell'arco del decennio in esame (uno su tutti, l'ascesa al vertice di Cosa Nostra da parte dei corleonesi, che nel 1981 erano subentrati con la violenza a Bontade e Teresi, gli originari interlocutori di Dell'Utri), dai quali parrebbe evincersi che, dall'inizio degli anni Ottanta, i rapporti tra l'imputato e i vertici dell'organizzazione criminale erano radicalmente mutati, e che, in particolare, era venuta meno quella comunione di intenti che si era invece registrata tra il 1974 e il 1977, e che, nell'ottica dei giudici di legittimità, costituirebbe elemento essenziale del dolo diretto richiesto in capo al concorrente esterno. d) La sentenza della Corte d'appello in sede di rinvio Sulla base di queste motivazioni, il giudizio viene quindi rinviato alla terza sezione penale della Corte d'appello di Palermo, la quale, a valle di un'analitica rilettura del materiale probatorio formatosi nel corso delle precedenti fasi dibattimentali, il 25 marzo 2013 condanna l'ex senatore Marcello Dell'Utri alla pena di sette anni di reclusione, confermando integralmente il giudizio di colpevolezza già espresso dalla sentenza annullata dalla Cassazione, per l'intero periodo intercorrente dal 1974 al 1992. Com'è ovvio, la sentenza della Corte palermitana si focalizza in particolare sui due periodi investiti dalle censure dei giudici di legittimità, vale a dire il quadriennio 1978-1982, e il successivo decennio 1983-1992. A proposito del periodo 1978-1982, la Corte d'appello evidenzia anzitutto che, diversamente da quanto sostenuto dalla Cassazione, l'allontanamento di Dell'Utri dalla sfera imprenditoriale di Berlusconi non si è protratto sino al 1982, bensì solo fino al 1979. In secondo luogo, rileva che anche in questo breve periodo di allontanamento l'imputato, non solo ha mantenuto stretti e continuativi rapporti con importanti esponenti di Cosa Nostra, ma, soprattutto, ha continuato a svolgere quell'attività di mediazione e collegamento tra l'amico imprenditore e l'associazione mafiosa, che aveva portato alla stipula del patto del 1974 (sul punto, la Corte richiama le dichiarazioni rese dai due collaboranti Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo Galliano, a detta dei quali i pagamenti di Berlusconi a Cosa Nostra, per il tramite di Dell'Utri, si sarebbero protratti senza soluzione di continuità fino alla morte del boss Bontade, avvenuta nel 1981, per poi proseguire anche negli anni successivi). Quanto, invece, al decennio 1983-1992, i giudici palermitani passano in rassegna tutti gli episodi che, secondo la chiave di lettura suggerita dalla Cassazione, indicherebbero che in quegli anni l'atteggiamento di Dell'Utri nei confronti di Cosa nostra avrebbe subito un radicale mutamento rispetto al passato, in particolare a seguito della caduta dei boss Teresi e Bontade, interlocutori storici dell'imputato, che all'inizio degli anni Ottanta erano stati sostituiti al vertice dell'organizzazione criminale dal gruppo dei corleonesi, con i quali Dell'Utri - dice la Cassazione - avrebbe instaurato rapporti estremamente tesi e conflittuali, come testimonierebbero gli attentati di matrice mafiosa subiti da Berlusconi nella seconda metà degli anni Ottanta (il riferimento è all'attentato di via Rovani del 28 novembre 1986, alle azioni intimidatorie decise da Riina nel 1987 e agli attentati ai magazzini della Standa di Catania del 1990) e la scelta di Riina di raddoppiare la somma di denaro che Berlusconi doveva pagare a Cosa nostra in cambio di protezione. Ebbene, a detta della Corte d'appello, "gli accadimenti, sui quali la Corte di Cassazione aveva chiesto un nuovo giudizio da parte di questo giudice di rinvio, non hanno palesato alcun mutamento o torsione nei rapporti tra Dell'Utri-Berlusconi e cosa nostra", essendo viceversa emerso il mero "interesse delle parti a salvaguardare un equilibrio prezioso per entrambe" (pag. 458). Né, d'altra parte, scrivono ancora i giudici palermitani, "può sostenersi che Dell'Utri, dopo aver intrattenuto così a lungo rapporti personali con boss mafiosi del calibro di Bontade, non sia stato consapevole delle finalità perseguite dall'associazione mafiosa: l'imputato aveva perfettamente chiari sia il vantaggio perseguito da cosa nostra, che l'efficacia causale della sua attività per il mantenimento della stessa associazione criminale" (pag. 458). Di talché, conclude sul punto la sentenza, anche in relazione al terzo e ultimo periodo oggetto di imputazione deve ritenersi sussistente "quel dolo specifico e diretto del concorrente esterno" richiesto dalla giurisprudenza per l'applicazione del delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. 3. La sentenza odierna della Corte di Cassazione Diversamente da quanto accaduto nel 2012, la sentenza di condanna pronunciata dalla sezione III della Corte d'appello di Palermo supera indenne il vaglio della Corte di Cassazione. Nelle oltre settanta pagine di motivazione, i giudici di legittimità illustrano distesamente le ragioni per le quali la decisione dei giudici palermitani si sottrae alle plurime censure formulate dalla difesa di Marcello Dell'Utri, sottolineando in particolare come la Corte d'appello, attraverso una rilettura puntuale e completa del materiale probatorio disponibile, abbia saputo colmare quei vuoti argomentativi che avevano invece caratterizzato la sentenza di condanna annullata con rinvio nel 2012. Di seguito si procederà, dunque, a riassumere le principali osservazioni svolte dalla Cassazione, ripercorrendo, dapprima, i principi di diritto espressi in tema di concorso esterno in associazione mafiosa, e, successivamente, le valutazioni più strettamente attinenti alla vicenda Dell'Utri. a) I principi di diritto espressi dalla Cassazione in tema di concorso esterno Nel ricostruire gli elementi obiettivi della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, la Cassazione non si discosta dalle definizioni ormai ampiamente consolidatesi in sede di legittimità, a seguito delle numerose pronunce a Sezioni Unite che hanno interessato negli ultimi vent'anni la fattispecie in parola. In piena assonanza con i più recenti approdi giurisprudenziali, il concorrente esterno viene quindi descritto come il "soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che esplichi un'effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come condizione necessaria per la conservazione e il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione o, quanto meno, di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima" (pag. 58). I giudici di legittimità ribadiscono, inoltre, che deve considerarsi ormai definitivamente superato quell'orientamento giurisprudenziale - evocato dal ricorrente - che richiedeva che il contributo del concorrente esterno intervenisse in un momento di "fibrillazione" nella vita del sodalizio criminale; come già chiarito dalla Sezioni Unite Mannino del 2005, infatti, la fattispecie di concorso esterno ricorre ogniqualvolta l'extraneus fornisca il proprio aiuto al rafforzamento ovvero al consolidamento del potere di un'organizzazione mafiosa, indipendentemente dallo "stato di salute" in cui in quel momento versi l'associazione. Qualche profilo di novità pare invece scorgersi in punto di elemento soggettivo. A tal proposito, occorre anzitutto ricordare che la giurisprudenza di legittimità, con un percorso argomentativo iniziato con le sentenze a sezioni unite Carnevale (2002) e Mannino (2005), e di recente completato con la prima sentenza Dell'Utri (2012), è ormai costante nel richiedere che il concorrente esterno agisca con la consapevolezza e volontà, non soltanto di contribuire al rafforzamento ovvero alla conservazione dell'organizzazione mafiosa, ma anche che il suo apporto risulti "diretto alla realizzazione del programma criminoso", espressione, quest'ultima, che la sentenza Dell'Utri del 2012 aveva interpretato nel senso di richiedere, in capo all'extraneus, una vera e propria condivisione, anche a livello per così dire emotivo, delle finalità perseguite dal sodalizio criminale (tant'è che, nel censurare la sentenza d'appello per il periodo 1983-1992, i giudici di legittimità avevano affermato che l'atteggiamento riottoso e polemico di Dell'Utri nei confronti dei nuovi vertici di Cosa Nostra non pareva compatibile con il tipo di dolo diretto richiesto in capo al concorrente esterno). Tenendo a mente quest'ultima osservazione, vediamo a questo punto come la sentenza in commento ricostruisce il dolo del concorrente esterno. Sul punto, i giudici di legittimità osservano in primo luogo che "la particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta [...], quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell'evento lesivo del 'medesimo reato'" (pag. 58-59). "Pertanto", scrive quindi la Cassazione, "il concorrente esterno, pur sprovvisto dell'affectio societatis e, cioè, della volontà di far parte dell'associazione, deve essere consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e si renda compiutamente conto dell'efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell'associazione" (pag. 59). Ebbene, chi abbia un minimo di dimestichezza con la giurisprudenza dell'ultimo decennio in tema di concorso esterno non potrà non cogliere i significativi elementi di novità che caratterizzano la ricostruzione del dolo dell'extraneus proposta dalla sentenza in parola, a partire dalla scelta dell'estensore, certo non casuale, di non fare alcun riferimento alla "volontà" di contribuire alla realizzazione del programma criminoso perseguito dall'associazione criminale, e di insistere, viceversa, sulla necessità che il concorrente sia "consapevole" degli scopi e dei metodi dell'organizzazione e che "si renda compiutamente conto" dell'efficacia causale del suo contributo. Ma, soprattutto, a venire in rilievo è la precisazione dell'assoluta irrilevanza dell'atteggiamento del concorrente esterno nei confronti dei metodi e dei fini perseguiti dal sodalizio criminale: la Corte, infatti, non solo non pretende, da parte del concorrente, alcuna condivisione "interna" del programma criminoso che l'organizzazione criminale intende realizzare, ma afferma espressamente che l'extraneus, nel proprio foro interno, potrà anche provare una vera e propria avversione nei confronti degli obiettivi dell'associazione mafiosa, senza che ciò precluda in alcun modo la possibilità di configurare il dolo del concorso esterno. Sotto questo profilo, dunque, la sentenza in commento pare muoversi in una direzione significativamente diversa rispetto a quella seguita dalla più recente giurisprudenza di legittimità, nell'ottica di un progressivo smarcamento da quelle ricostruzioni ermeneutiche che, negli ultimi anni, hanno inteso attribuire all'extraneus un atteggiamento psicologico sostanzialmente sovrapponibile al dolo specifico richiesto in capo al partecipante. b) Le statuizioni della Corte di Cassazione sulla vicenda Dell'Utri Una volta ricostruite le coordinate ermeneutiche fissate dalla Cassazione in tema di concorso esterno, non resta che spostare lo sguardo sulle osservazioni espresse dai giudici di legittimità in ordine alla rilettura del materiale probatorio contenuta nella sentenza d'appello per i due periodi devoluti alla nuova valutazione del giudice di seconde cure palermitano. Per ciò che concerne il periodo di allontanamento di Dell'Utri dalla sfera imprenditoriale dell'amico Berlusconi, la Cassazione anzitutto conferma la sentenza d'appello nella parte in cui essa precisa che detto allontanamento "non coincideva con il quadriennio 1978-1982", come invece indicato nella sentenza di annullamento, "ma era molto più breve, essendosi protratto soltanto tra il 1978 e il 1979" (pag. 48). A sostegno di tale assunto, infatti, la Corte d'appello ha correttamente evidenziato le seguenti risultanze: - le dichiarazioni rese dallo stesso imputato, il quale, nel corso del dibattimento di primo grado, ha affermato "di essere stato amministratore delegato della s.p.a. Bresciano" (società riconducibile a Rapisarda) dal gennaio 1978 alla fine del 1979, allorché la società era fallita", e "di non avere, da allora, avuto più niente a che fare con aziende e società del gruppo Rapisarda e di essere tornato a lavorare per Silvio Berlusconi sin dal 1980, pur se l'assunzione formale era avvenuta l'1 marzo 1982" (pag. 49); - le dichiarazioni rese da Rapisarda, "che ammetteva di essere scappato, sin dal febbraio 1979, dapprima in Venezuela e, quindi, in Francia" (pag. 49). In secondo luogo, la Cassazione condivide il giudizio della Corte d'appello circa l'inidoneità del periodo di allontanamento "a incidere sul ruolo d'intermediario svolto dall'imputato tra 'cosa nostra' palermitana e Silvio Berlusconi ai fini della protezione di quest'ultimo", in quanto, dice, tale giudizio risulta fondato su un complesso di elementi "in ordine ai quali la Corte d'Appello forniva una giustificazione razionale, sorretta dal puntuale esame delle emergenze probatorie acquisite" (pag. 49). In particolare, ricordano i giudici di legittimità, gli elementi dai quali la sentenza d'appello ha desunto, con motivazione immune da vizi logici, il perdurare dei rapporti tra l'imputato e Cosa nostra anche in questo breve lasso di tempo sono i seguenti: - l'incontro, avvenuto a Parigi nei primi mesi del 1980, tra l'imputato e i boss Bontade e Teresi, nel corso del quale "Dell'Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi venti miliardi di lire per l'acquisto di film per 'Canale 5'" (pag. 50); - le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, "che collocava un incontro a Milano tra Stefano Bontade (da lui accompagnato in auto in questa come in altre occasioni) e Dell'Utri nel periodo in cui quest'ultimo già lavorava per Rapisarda" (pag. 51); - la partecipazione, nel corso del 1979, "ossia nel periodo di tempo in cui l'imputato non lavorava più alle dipendenze di Silvio Berlusconi) a una cena tenutasi nella villa di Stefano Bontade, cui aveva preso parte una ventina di persone, tra cui Di Carlo, Bontade, Teresi" (pag. 51); - la richiesta, rivolta da Dell'Utri a Cinà, di occuparsi della 'messa a posto, per l'installazione delle antenne televisive, questione poi effettivamente risolta da Bontade e Teresi" (pag. 51); - la partecipazione di Dell'Utri al matrimonio di Girolamo Fauci, celebratosi a Londra il 19 aprile 1980, "che aveva visto tra gli invitati anche Cinà, Girolamo Teresi (testimone della sposa), Di Carlo". La Cassazione rileva altresì che "il contesto giustificativo della decisione circa la responsabilità di Dell'Utri in ordine al delitto a lui ascritto nel periodo 1978-1982 era ulteriormente arricchito dall'approfondita analisi delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia (Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo, entrambi 'uomini d'onore', della famiglia della Noce, e Antonino Galliano, 'uomo d'onore riservato' della famiglia della Noce) in merito alla prosecuzione dei pagamenti effettuati, in attuazione dell'accordo concluso nel 1974 a Milano tra gli esponenti di 'cosa nostra' palermitana e Silvio Berlusconi, grazie all'opera di intermediazione dell'imputato, anche nel lasso di tempo in cui Dell'Utri non lavorava formalmente alle dipendenze di Berlusconi" (pag. 52). In particolare, scrivono i giudici di legittimità, dalla ricostruzione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la Corte d'appello ha correttamente desunto che "i pagamenti di Berlusconi in favore di 'cosa nostra' palermitana - quale corrispettivo per la complessiva protezione a lui accordata e in attuazione dell'accordo raggiunto nel 1974 con la mediazione di Dell'Utri - erano proseguiti senza soluzione di continuità e che, dopo la scomparsa di Stefano Bontade e di Girolamo Teresi (avvenute entrambe nel 1981), erano stati effettuati ai fratelli Giovan Battista e Ignazio Pullarà, divenuti reggenti del mandamento di S. Maria del Gesù e subentrati nei rapporti da essi intrattenuti. I soldi venivano materialmente riscossi a Milano presso Dell'Utri da Gaetano Cinà che provvedeva a recapitarli a Stefano Bontade e, dopo la morte di quest'ultimo, li faceva pervenire ai Pullarà tramite Pippo Di Napoli e Pippo Contorno, 'uomo d'onore' della stessa 'famiglia' mafiosa" (pag. 53). Sulla base di queste considerazioni, la Cassazione conferma il giudizio della Corte d'appello in ordine alla sussistenza, in capo a Dell'Utri, per l'intero quadriennio 1978-1982, degli elementi obiettivi e subiettivi del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa. La Cassazione passa quindi a esaminare la parte della sentenza d'appello dedicata alla rilettura degli avvenimenti "ritenuti dalla sentenza rescindente apparentemente distonici con il riconoscimento dell'elemento soggettivo del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa nel periodo 1983-1992" (pag. 64), osservando in particolare che: - bene hanno fatto i giudici palermitani a rilevare che l'attentato di via Rovani del 1986, in quanto riconducibile all'organizzazione catanese capeggiata dal boss Santapaola, deve ritenersi "del tutto estraneo alla trama dei rapporti tra Berlusconi, Dell'Utri e il sodalizio mafioso in precedenza delineata" e, conseguentemente, "inidoneo a incidere sulla sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di cui agli artt. 110, 416 bis c.p."; - altrettanto corretta è anche la lettura della Corte d'appello dell'episodio relativo alla scelta del boss Riina, nel 1986, di raddoppiare le somme richieste a Berlusconi, episodio che, secondo i giudici palermitani, "non ha in alcun modo inciso sulla natura dell'accordo di protezione concluso nel 1974, sulle sue modalità attuative, proseguite con il ritiro delle somme di denaro presso l'ufficio di Dell'Utri da parte di Cinà, sull'affidamento reciproco tra l'imputato e Cinà, comprovato dalle conversazioni intercorse tra il novembre e il dicembre 1986 tra Cinà e Marcello, Alberto Dell'Utri e la loro madre, tutte improntate alla massima familiarità" (pag. 65); - del pari, anche la "non attribuibilità degli attentati ai magazzini 'Standa' di Catania, appartenenti alla 'Fininvest', all'azione di 'cosa nostra' palermitana veniva plausibilmente motivato dalla Corte d'appello di Palermo mediante il richiamo al contenuto della sentenza emessa dalla Corte d'assise d'appello di Catania nel c.d. processo 'Orsa maggiore' (irrevocabile il 10 luglio 2001), acquisita ai sensi dell'art. 238 bis c.p.p., che aveva accertato, con autorità di cosa giudicata, che detti attentati erano stati commessi dalla 'famiglia' mafiosa facente capo a Benedetto (Nitto) Santapaola e al nipote Aldo Ercolano, condannati quali mandanti degli incendi e della connessa tentata estorsione" (pag. 66). In conclusione, i giudici di legittimità ritengono che la Corte d'appello di Palermo abbia dimostrato, "con motivazione esente da vizi logici e giuridici", che "anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l'imputato, assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Silvio Berslusconi in favore degli esponenti dell'associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all'imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione" (pag. 69). Di talché, la sentenza d'appello viene confermata anche nella parte in cui afferma la sussistenza degli estremi del dolo del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa per il decennio 1983-1992.

Sintesi caso Bruno Contrada

Il 10 maggio 2007, Bruno Contrada, ex Capo di Polizia e Dirigente dei Servizi Segreti, viene condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa. L’11 ottobre 2012, dopo aver trascorso 4 anni in carcere e 4 agli arresti domiciliari, viene scarcerato. Il 13 aprile 2015, tuttavia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo puniva lo Stato italiano perché Contrada non doveva essere né processato, nè condannato, dal momento che all’epoca dei fatti (dal 1979 al 1988) il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (nato dal combinato disposto dell’art. 110 e 416 bis c.p.) non era sufficientemente chiaro, né prevedibile, in quanto la sentenza chiarificatrice sarebbe arrivata solo nel 1994. Nel 2016, l’Avv. Stefano Giordano, difensore di Bruno Contrada, dopo i rigetti alle richieste di revisione, depositava richiesta di revoca della condanna, perché venisse recepito il dettato della Corte europea. Dopo un primo rigettato della Corte d’Appello di Palermo, la Cassazione annullava la condanna di Contrada perché “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”. Con ordinanza depositata il 6 aprile 2020, la Corte d’Appello di Palermo liquida a favore di Bruno Contrada la somma di 667 mila euro per Ingiusta Detenzione.

Sintesi processo per concorso esterno associazione mafiosa Giulio Andreotti

Processo Andreotti Il 2 maggio 2003 è stato giudicato e condannato dalla Corte d'Appello di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Era stato assolto in primo grado, il 23 ottobre 1999. Nell'ultimo grado di giudizio, la II sezione penale della Corte di Cassazione ha citato il concetto di "concreta collaborazione" con esponenti di spicco di Cosa Nostra fino alla primavera del 1980, presente nel Dispositivo di Appello. Il reato commesso non era però più perseguibile per sopravvenuta prescrizione e quindi si è dichiarato il "non luogo a procedere" nei confronti di Andreotti. https://www.archivioantimafia.org/andreotti.php

mercoledì 11 settembre 2024

al momento della strage il dc9 subisce guerra elettronica

CARTINA NR. 1 - TRACCIA AJ421 (DC9-ITIGI) (VDS. ALL. A-1) APPARE NELLA REGISTRAZIONE, COME "REMOTA", ALLE ORE 1858/Z, NELLA POSIZIONE 40 GRADI 16'N-12 GRADI 55'E. E' CLASSIFICATA "AMICA", CON QUALITA' 7 VELOCITA' 446 NODI, QUOTA 26200 PIEDI, IFF 3/A CODICE 1136. E' REGISTRATA PER L'ULTIMA VOLTA ALLE ORE 1859/Z IN POSIZIONE 40 GRADI 10'N-12 GRADI 55'N. RISULTA SEMPRE "REMOTA". questo è il falso dc9 creato con la guerra elettronica CARTINA NR. 62 - TRACCIA LE500 (VDS. ALL. A-62) APPARE NELLA REGISTRAZIONE, COME "REMOTA", ALLE ORE 1821/Z, NELLA POSIZIONE 44 GRADI 10'N-13 GRADI 00'E. E' CLASSIFICATA "AMICA", CON QUALITA' 7, VELOCITA' DI 424 NODI, QUOTA 25124 PIEDI, IFF MOD 3/A CODICE 1132 E SUCCESSIVAMENTE 1234 E 1136. E' REGISTRATA PER L'ULTIMA VOLTA ALLE ORE 1858/Z IN POSIZIONE 41 GRADI 48'N-12 GRADI 20'E CON QUALITA' 0. LA TRACCIA E' PRESENTE ANCHE COME "LOCALE". questo è il falso dc9 creato con la guerra elettronica traccia LE157 ore 1859,57z 39°43′N 12°55′E scompare dai radar vero dc9

Il tronco di coda del dc9 si è staccato durante la caduta e prima che esso impattasse sul mare

IL PRIMO EVENTO CHE SI E' VERIFICATO A BORDO E CHE HA MODALITA' DI DETERMINATO L'INIZIO DEL COLLASSO DELLA STRUTTURA E' COLLASSO DEL STATO IL CEDIMENTO DELL'ATTACCO ANTERIORE DEL MOTORE VELIVOLO DESTRO, IN CORRISPONDENZA DEL VINCOLO CON L'ORDINATA 786. A SEGUITO DI QUESTO EVENTO, SI E' AVUTO IL DISTACCO DEL MOTORE DESTRO CON PARTE DELLA FIANCATA ADIACENTE ALL'ATTACCO POSTERIORE (RECUPERATA IN ZONA B) E, PLAUSIBILMENTE, ANCHE CON PARTE DELLA FIANCATA ADIACENTE ALL'ATTACCO ANTERIORE (NON RECUPERATA). IMMEDIATAMENTE DOPO SI E' AVUTO IL DISTACCO DEL MOTORE SINISTRO PER CEDIMENTO COMPLETO DELL'ORDINATA DI ATTACCO 786 ED IL CEDIMENTO DELL'ORDINATA DI FORZA 642 CON DISTACCO DELLA FIANCATA SINISTRA CONTENENTE I FINESTRINI (FRAMMENTO NUMERO 529) CHE, DEFLESSA DAL FLUSSO DI ARIA IN SENSO CONTRARIO AL MOTO, HA URTATO CONTRO LA PRESA D'ARIA DEL MOTORE STESSO DELLA FASCIA DEI RITROVAMENTI. IL CEDIMENTO DELL'ORDINATA DI FORZA 642 HA DETERMINATO, IN RAPIDA SEQUENZA, IL DISTACCO, IN CORRISPONDENZA AD ESSA, DELLA PARTE POSTERIORE DELLA FUSOLIERA E LA SUA DISTRUZIONE, PRINCIPALMENTE PER EFFETTO DI "PELATURA" IN DIREZIONE CONTRARIA AL MOTO DEL VELIVOLO DETERMINATA DALLA PRESSIONE DINAMICA ESERCITATA DAL FLUSSO DI ARIA. TALE DISTRUZIONE HA DETERMINATO LA DISPERSIONE DEI FRAMMENTI NELLE ZONE DI RITROVAMENTO F ED E. CONTEMPORANEAMENTE A QUESTI EVENTI SI E' AVUTO IL DISTACCO DELL'ESTREMITA' DELLA SEMIALA SINISTRA E DEL TRONCO DI CODA. DI CONSEGUENZA, IL DISTACCO DEL TRONCO DI CODA PUO' ESSERE AVVENUTO CONTEMPORANEAMENTE AL CEDIMENTO DELL'ORDINATA O, QUANTO MENO, IN ISTANTI IMMEDIATAMENTE SUCCESSIVI. IL RESTO DEL RELITTO NON HA SUBITO ULTERIORI FRAMMENTAZIONI DURANTE LA CADUTA E SI E' DISTRUTTO AL MOMENTO DELL'IMPATTO CON LA SUPERFICIE DEL MARE IN CORRISPONDENZA DELLA ZONA DI RECUPERO C.

i fori sul portellone del dc9 non sono dovuti a rods nella testa di un missile ma il taglio continuo del bersaglio è sul cono di coda dc9

requisitorie pm TALI CONCLUSIONI FURONO RITENUTE, DAL COLLEGIO BLASI, COMPATIBILI CON FRAMMENTI AD ALTA VELOCITA', PROVENIENTI DA TESTATA BELLICA DI UN MISSILE. IN REALTA' IL RARDE FU ABBASTANZA CHIARO NELL'INDICARE CHE LE VELOCITA' SOPRA INDICATE SONO COMPARATIVAMENTE INFERIORI A QUELLE CHE CI SI ASPETTEREBBE DALLE SCHEGGE DI UNA TESTATA (AL MASSIMO 700 MS CONTRO I 1.000/1.200 MS. DI UNA BARRA (ROD) PREFRAMMENTATA CHE COSTITUISCE PARTE DI UNA TESTATA E CHE HA SOMIGLIANZA CON LE CARATTERISTICHE DI UNO SOLO DEI DUE FORI [IL VALORE INDICATO PER UNA CONTINUOUS ROD WARHEAD E' RICAVATO DALLA PERIZIA BRANDIMARTE E ALTRI, PAG. 14; SPOLETINI INDICA VALORI ANCORA SUPERIORI, NELL'ORDINE DEI 2.000 M/S]; A QUESTO PROPOSITO VA OSSERVATO CHE LA VELOCITA' INIZIALE DECRESCE IN MANIERA ESPONENZIALE CON LA DISTANZA, MA CHE LE BARRETTE PREFRAMMENTATE, FORMANDO UN CERCHIO, LASCIANO TRACCE MOLTO CARATTERISTICHE E CIOE' UN TAGLIO PRESSOCHE' CONTINUO NELLA STRUTTURA DEL BERSAGLIO) Il taglio pressoche' continuo della struttura del bersaglio e' per il cono di coda infatti non in altre parti del velivolo. Non si puo' escludere sia uno Sparrow inerte ad avere abbattuto il dc9. Laura Picchi

martedì 10 settembre 2024

AAA cercasi Opord della nave militare del 27 giugno 1980 Vittorio Veneto

La Marina militare nasconde l'opord ordine operativo di quella sera della Vittorio Veneto. Un marinaio smenti nel 1988 a Telefono giallo la Marina militare italiana geoposizionando la Vittorio Veneto a Ustica. A volte il caso. Sull'opord c'è scritto chi era il capo della guerra elettronica della Vittorio Veneto, se la nave era o no a Ustica e se c'era a che è servita la sua guerra elettronica se ci fu eventualmente quella sera un'operazione di quel tipo. Nell'opord della Vittorio Veneto e nell'oprep (report operativo) c'è la verità su quella sera della strage di Ustica che noi non possiamo provare perchè essi sono spariti o distrutti. Laura picchi

Sesto scenario (che ad oggi non si puo' provare): la possibile responsabilità della guerra elettronica della Vittorio Veneto

Notevole la componente elettronica dell'unità dotata sin dal 1970 del Sistema Automatico di Direzione delle Operazioni di Combattimento SADOC-1 Il radar tridimensionale di scoperta aerea lontana Hughes AN/SPS-52C era posizionato sull'albero di maestra prodiero. Il TACAN e il radar bidimensionale di scoperta aeronavale della Lockheed Electronics AN/SPS-40 erano collocati sul mack poppiero, mentre il radar di navigazione e di scoperta di superficie SMA MM-SPQ-2B era collocato sull'albero di trinchetto. Il radar bidimensionale di scoperta aeronavale AN/SPS-40 era stato acquisito in attesa che venisse sviluppato il nuovo modello di produzione nazionale MM/SPS-768 che fu prodotto a partire da novembre 1975 e avrebbe equipaggiato tutte le unità di altura della squadra navale a partire dalla seconda metà degli anni settanta.[6] I due radar guida-missili Sperry AN/SPG-55A erano posizionati sulla sommità della struttura centro-prodiera. Le quattro centrali di tiro ELSAG -Elettronica San Giorgio Argo NA-10/RTN-10X, ciascuna asservita ad una coppia di cannoni da 76/62, erano sistemate una a prora, una a poppa e due in posizione centro-laterale. Il sistema di guerra elettronica I.F.F. e E.S.M./ECM era Abbey Hill e disponeva di due lanciarazzi chaff/jammers/flares SCLAR Breda-Elsag collocati ai due lati dell'unità. La nave era dotata di sistema di comando e controllo SADOC-1 e di un sonar a scafo a media frequenza AN/SQS-23G a cui erano associati i sensori degli elicotteri imbarcati. Nelle Ecm della guerra elettronica nelle misure attive c'è impulsi elettromagnetici (EMP) che era in grado di abbattere un aereo senza bombe e missili Nelle Esm della guerra elettronica c'è il sistema rf che disabilita la radiofrequenza di un aereo e lo fa precipitare Laura Picchi

la tesi di Laura Picchi che oggi non si puo' provare

Ciancarella volando sui c130 come Marcucci sui g222 da trasporto erano del tutto ignoranti sullo Sparrow inerte, Ciancarella scrive sapevamo di avere solo il Sidewinder aim9b. Si toglie le sferette che non appartengono ad un missile, si toglie l'esplosivo nel booster dello Sparrow inerte che non c'è, si toglie l'esplosivo incombusto per inquinamento. Ripulito il relitto del dc9 e il lavoro di Ciancarella dagli elementi che non hanno nulla a che vedere con la dinamica ultima della strage di Ustica mettiamo in fila quelli veri: Dettori dice sono stati Naldini e Nutarelli con uno Sparrow inerte, Marcucci dice io credo solo alla tesi di Ciancarella lo sparrow inerte non ha sferette ma barrette metalliche lo sparrow inerte è senza esplosivo lo sparrow inerte ha il cerchio continuo di barrette metalliche che aggancia e taglia di netto il cono di coda del target, il dc9 ha il cono di coda del target tagliato di netto lo sparrow inerte strappato il cono di coda del dc9 rompe il cerchio continuo delle barrette metalliche si trovano quattro fori da barretta metallica sul portellone centrale del dc9. (fino a qui si puo' tutto provare) La traccia aa464 ll464 lg403 ha il trasponder acceso, è il mig decollato da Pratica di Mare Ll013 sono Naldini e Nutarelli ma con la guerra elettronica dalla nave militare Vittorio Veneto riproducono falsi dc9 per creare al caccia di Grosseto il corridoio per abbattere il vero dc9 al riparo dei radar. Il codice di transponder è uguale a quello di un caccia inglese ma in realtà appartiene ai codici di transponder locali dati da chi è sotto controllo di Ciampino. Naldini e Nutarelli sono armati di Sparrow inerti e abbattono il dc9, poi si armati solo del cannone abbattono il mig decollato da Pratica di Mare disarmato di missili ma ha solo il cannone assassinando volontariamente il pilota del Mig. E' quello che ho chiamato il quinto scenario che non si puo' provare. Laura Picchi

Propellente Booster Sparrow aim-7e non c'è esplosivo

Propellente a base solida Booster Sparrow aim-7e new propellant composition AP/AL/HTPB -

l'esplosivo incombusto ritrovato sui rottami del dc9 dovuto a fenomeno di inquinamento

Nella risposta ai quesiti resa dai periti giudiziari Casarosa ed Held, estensori della nota aggiuntiva, (di seguito PF) si descrive il percorso logico e la metodologia di indagine assunti dal Collegio Peritale Giudiziario (di seguito CP) nel corso dell'indagine. Da quanto letto, pur senza voler sindacare sulla legittimità della scelta di percorsi logici, metodologie e conclusioni, si intende fare alcune osservazioni: - Sembra che il CP abbia concluso che tutti gli indizi, le evidenze, le risultanze delle indagini e quant'altro fosse frutto del lavoro delle precedenti commissioni di indagine, non fosse utilizzabile per il loro lavoro poichè esistevano forti elementi di dubbio su tutto. - L'unica evidenza reale, (a detta del CP), la presenza di esplosivi risultante da diverse analisi eseguite sui reperti (da diversi enti e in tempi diversi) veniva fatta risalire a probabili fenomeni di inquinamento. (Quindi dichiarando implicitamente che i laboratori della DLAM (Direzione Laboratori Aereonautica Militare) e del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) avessero preso le classiche lucciole per lanterne). Questi fenomeni da inquinamento venivano dedotti da : 1) l'esiguità del ritrovamento (la bassa quantità in peso dell'esplosivo incombusto ritrovato) 2) La posizione nel velivolo dei reperti che portavano tracce di esplosivo (tutti appartenenti a zone dell'aereo che non mostravano tracce di macroscopici danni derivati da un evento esplosivo.)

Le sfere nell'ala del dc9 non fanno parte della testa di un missile

Requisitorie Pm CERTAMENTE IRRILEVANTI NELLA DINAMICA DEL SINISTRO SONO LE SFERETTE RINVENUTE ALL'INTERNO DI UNA SEMIALA. ANCHE SU QUESTI OGGETTI SONO STATE CONDOTTE INDAGINI CHIMICHE E METALLOGRAFICHE, ESSENDO STATO IPOTIZZATO CHE POTESSE TRATTARSI DI COMPONENTI DI TESTATE DI GUERRA DI PROIETTILI A CARICA MULTIPLA. SI E' INFATTI ACCERTATO CHE ESSE HANNO DIMENSIONI E COMPOSIZIONE CHIMICA MOLTO SIMILI A QUELLE DELLE SFERETTE UTILIZZATE PER UN PROCESSO DI PRODUZIONE DI COMPONENTI DELL'AEREO (PALLINATURA) NONCHE' DI QUELLE CHE SONO CONTENUTE NELLE PULEGGE DELL'AEREO. QUESTA IDENTIFICAZIONE E' STATA CONTESTATA DAI CONSULENTI DI PARTE CIVILE, CHE RILEVANO COME NON RISULTI DALLA DOCUMENTAZIONE DI BORDO CHE SIA MAI STATA EFFETTUATA UN'OPERAZIONE DI MANUTENZIONE CHE RICHIEDESSE L'IMPIEGO DELLE SFERULE IN OGNI CASO, LE SFERETTE RINVENUTE SAREBBERO DI CARATTERISTICHE DIVERSE DA QUELLE UTILIZZATE PER LA PALLINATURA, COME VERIFICABILE ATTRAVERSO IL MATERIALE COMPARATIVO MESSO A DISPOSIZIONE DALL'ALITALIA

lunedì 9 settembre 2024

La posizione di Laura Picchi (post aggiornato 9 settembre 2024)

Chi mi conosce lo sa. Ho sempre cercato la verità a 360 gradi, ma è di tutta evidenza che sono ben lontana dal trovarla. Una deve accettare o i suoi limiti o che la verità sia rubata forse per sempre. Chi mi conosce lo sa che non ho nessuna intenzione di discutere una tesi su Ustica che confermi il mistero, come dovrei fare con i dati che ho disponibili oggi. Chi mi conosce lo sa che non posso pagare richieste di risarcimenti per sostenere una tesi che oggi non posso provare. Ho tolto da mediafire libro e tesi perchè la verità potrebbe essere una che se anche mi danno le prove documentali dovrei dire per me questa o quella persona era ed è incredibile , non ci credo, che abbia ucciso 81 persone. Chi mi conosce sa che non accuserei mai persone se c'è anche il dubbio, se non la certezza non sono stati a fare la strage. Il mio senso dello stato di diritto oltre ogni ragionevole dubbio che guida il giudice, ho sempre voluto che guidi anche me come apprendista storico. Ero il 14 agosto attaccata all'ossigeno ancora, quando mi hanno detto che il mio stomaco sanguina per gastrite erosiva. Io a Ustica ho dato la mia salute, 15 anni di vita e il futuro. Ora mi devo riprendere. Io faccio gli auguri a chi ritiene di avere su questa vicenda la verità in tasca, beati loro, miseria! Io portero' alla discussione di storia contemporanea una tesi se me l'accettano da piazza fontana a omicidio moro. Sempre d'interesse, con piu' punti luce e senza il rischio concreto di accusare innocenti. A Ustica ci sono padri con le vite devastate o stroncate senza oggi un perchè e un come, come quelle delle mogli e dei figlioli. A Ustica c'è gente ancora oggi con il fucile puntato dal proprio governo e servizi, a Ustica si gioco su piu' tavoli mischiando vero e falso, apparenza e realtà dei fatti, ignoranza tecnica sui missili, sulla difesa aerea, sul traffico aereo e sul pilotaggio e malafede di chi ha il sapere tecnico e professionale militare aeronautica di pilota e radarista. Poi lo dico sempre, ci sono le 81 vittime, bambini,neonati, uomini e donne che volevano solo atterrare a Palermo. Io sto con loro. Laura Picchi

I tf104 che aveva il 20o gruppo di Naldini e Nutarelli sono sempre disarmati

Naldini e Nutarelli volavano su aerei disarmati Da Grosseto partono alle 19,30 un F104 biposto in coppia con un altro F104 per compiere un addestramento di intercettazione simulata. Alle 19,40 un altro F104 per compiere un volo di addestramento, avvicinamento e ritorno, verso Verona Villafranca. Tutti gli aerei erano disarmati.

Ustica Aspide non puo' essere stato ad abbattere il dc9

NEL 1984 AEROSPAZIO: PRIMO LANCIO MISSILE ''ASPIDE'' DA F-104S (ANSA) - ROMA, 27 SET - PER LA PRIMA VOLTA UN MISSILE ARIA-ARIA ''ASPIDE'' DELLA SELENIA E' STATO LANCIATO DA UN INTERCETTORE F-104S DEL REPARTO SPERIMENTALE VOLO DELL' AERONAUTICA MILITARE ITALIANA. IL LANCIO E' NEL QUADRO DELLA SPERIMENTAZIONE PER QUALIFICARE L' AEREO ALL' USO DEL MISSILE. ATTUALMENTE L' F-104 E' ARMATO CON MISSILI ''SPARROW'' E ''SIDEWINDER''. SCOPO DEL LANCIO, CHE HA AVUTO SUCCESSO, ERA DI PROVARE CHE IL MISSILE SI STACCASSE DALL' AEREO SENZA CREARE PROBLEMI. L' ''ASPIDE'' HA INFATTI UN MOTORE PIU' POTENTE DELLO ''SPARROW'' E IL MAGGIOR CALORE PRODOTTO AVREBBE POTUTO DANNEGGIARE LE PRESE D' ARIA DELL' AEREO E QUINDI IL MOTORE. IL MISSILE, LANCIATO SUL POLIGONO DI SALTO DI QUIRRA IN SARDEGNA, NON AVEVA BERSAGLIO, MA HA COMPIUTO VIRATE E ACCOSTATE SOTTO IL CONTROLLO DEL PROPRIO AUTOPILOTA. L' ''ASPIDE'' E' STATO LANCIATO ALLA QUOTA DI 7.600 METRI CON L' F-104 CHE VIAGGIAVA AD UNA VELOCITA' DI 920 KM/H. SONO PREVISTI ALTRI LANCI DI ''ASPIDE'' PER ARRIVARE ALLA COMPLETA OPERATIVITA' DELL' F-104S CON QUESTO MISSILE NEL GENNAIO 1985. L' ''ASPIDE'' E' L' UNICO MISSILE AL MONDO AD ESSERE USATO IN SISTEMI NAVALI, TERRESTRI ED AEREI. SS/CF 27-SET-84 04:38 NNNN

Ustica il mig 23 libico con Apex non puo' essere stato ad abbattere il dc9

Il missile Apex ha il tgaf5 e quindi è compatibile con un eventuale abbattimento del dc9. La libia pero' nel 1980 non aveva Apex e non lo ebbe fino al 1983

Lo sparrow aim7-e con testa mk38 usato da Usa e Italia dal 1962 non puo' essere stato ad abbattere il dc9

AIM-7E incompatibile AIM-7E-2 incompatibile PBXN-4 11.52kg Sparrow aim-7e inerte no explosive

Ustica Gli inglesi erano in volo al momento della strage ma non è stato Skyflash ad abbattere il dc9

Skyflash incompatibile Skyflash SuperTEMP incompatibile Esplosivo PBXN-4 11.52kg

Ustica i francesi erano in volo al momento della strage ma non è stato un missile francese

Matra R530E incompatibile Matra R530 incompatibile Matra Super 530D incompatibile Matra Super 530F incompatibile Esplosivo PBXN-3 10.37kg

domenica 8 settembre 2024

1993 Indagini e processi Strage di Via dei Georgofili

Indagini e processi Le indagini ricostruirono l'esecuzione della strage di via dei Georgofili in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Carra, Vincenzo e Giuseppe Ferro, Salvatore Grigoli, Antonio Calvaruso, Pietro Romeo e Vincenzo Sinacori. Nel 1998 Giuseppe Barranca, Gaspare Spatuzza, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giorgio Pizzo, Gioacchino Calabrò, Vincenzo Ferro, Pietro Carra e Antonino Mangano vennero riconosciuti come esecutori materiali della strage nella sentenza per le stragi del 1993.[1] Nel 2008 Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia e confermò le sue responsabilità nell'attentato di via dei Georgofili[7]: in particolare, Spatuzza dichiarò che la strage venne pianificata durante una riunione in cui erano presenti lui, Barranca e Giuliano insieme ai boss Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro e Francesco Tagliavia (capo della Famiglia di Corso dei Mille), i quali decisero l'obiettivo da colpire attraverso dépliant turistici; inoltre Tagliavia finanziò anche la "trasferta" a Firenze per compiere l'attentato.[7] In seguito alle dichiarazioni di Spatuzza, nel 2011 la Corte d'assise di Firenze condannò Tagliavia all'ergastolo.[7] Sempre sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, nel 2012 la Procura di Firenze dispose l'arresto del pescatore Cosimo D'Amato, cugino di Cosimo Lo Nigro, il quale era accusato di aver fornito l'esplosivo, estratto da residuati bellici recuperati in mare, che venne utilizzato in tutti gli attentati del 1992-1993, compresa la strage di via dei Georgofili.[7][8][9] Nel 2013 D'Amato venne condannato all'ergastolo con il rito abbreviato dal giudice dell'udienza preliminare di Firenze[10]; la condanna venne confermata in appello nel 2014[11] e, due anni dopo, in Cassazione[12]; nel 2015 lo stesso D'Amato iniziò a collaborare con la giustizia e confermò il suo coinvolgimento nella fornitura di esplosivi.[13][14] Sempre nel 2013 l'Associazione tra i familiari delle vittime della Strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli, è ammessa come parte civile al processo sulla trattativa Stato-mafia ed è rappresentata da Danilo Ammannato in qualità di suo avvocato.[15] Il 20 maggio del 2016, da alcuni stralci delle motivazioni depositate dalla seconda Corte d’Assise di Appello di Firenze nel processo contro Tagliavia, si evince che “Lo Stato – avviò una trattativa con Cosa nostra”, che “indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des” per interrompere la strategia stragista di Cosa nostra. E “l'iniziativa - precisano - fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”.[16] Per tutti i documenti vedere il sito https://www.strageviadeigeorgofili.it/

1992 Rita Atria

Per la Storia di Vita e purtroppo di abbandono dello Stato e seguente morte della Testimone di Giustizia Rita Atria si segnala il sito https://www.ritaatria.it/

1992 indagini e processi strage via d'amelio

ndagini e processiPrime indagini e il processo "Borsellino uno" Le prime indagini sulla strage di via D'Amelio vennero coordinate dal Procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra e dai sostituti procuratori Ilda Boccassini e Fausto Cardella (cui si aggiunsero negli anni successivi i sostituti Annamaria Palma, Nino Di Matteo e Carmelo Petralia)[38][39]. Fu così che nel settembre 1992 il gruppo investigativo della Polizia di Stato denominato "Falcone-Borsellino"[40] e guidato dal capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera riuscì a individuare e arrestare i pregiudicati Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino (due balordi della Guadagna con precedenti penali per rapina, spaccio di droga e violenza sessuale)[41], i quali si autoaccusarono del furto della Fiat 126 utilizzata nell'attentato: tale circostanza venne confermata dal detenuto Francesco Andriotta, il quale era stato compagno di cella di Scarantino nel carcere di Busto Arsizio e aveva riferito agli inquirenti di avere ricevuto confidenze dallo stesso Scarantino sull'esecuzione della strage; in particolare Scarantino dichiarò di avere ricevuto l'incarico del furto della Fiat 126 dal cognato Salvatore Profeta (mafioso della Guadagna, morto nel 2018[42]) e di avere portato l'auto rubata nell'officina di Giuseppe Orofino, dove venne preparata l'autobomba; inoltre Scarantino accusò un gruppo di fuoco del "mandamento" di Santa Maria di Gesù-Guadagna (Pietro Aglieri, lo stesso Salvatore Profeta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia) di essere gli esecutori della strage di via D'Amelio e riferì di avere assistito per caso a una riunione ristretta della "Commissione" nella villa del mafioso Giuseppe Calascibetta, dove venne decisa l'uccisione di Borsellino.[20][43] In un successivo interrogatorio, Scarantino dichiarò che alla riunione nella villa di Calascibetta erano presenti anche Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera, entrambi diventati collaboratori di giustizia, i quali però negarono la circostanza e, durante i confronti dinanzi ai pubblici ministeri, accusarono Scarantino di dire falsità nelle sue dichiarazioni[10][43]. Tali dichiarazioni portarono al primo troncone del processo per la strage di via D'Amelio (denominato "Borsellino uno"), che iniziò nell'ottobre 1994 e vedeva imputati Scarantino, Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto (tecnico telefonico e fratello del mafioso Gaetano, accusato dagli inquirenti di aver manomesso gli impianti telefonici del palazzo di via D'Amelio per intercettare le telefonate della madre del giudice Borsellino al fine di conoscere i movimenti del magistrato).[44] Durante le udienze, gli avvocati difensori chiamarono a testimoniare un transessuale e due travestiti che affermavano di avere avuto una relazione con Scarantino, al fine di screditarne le dichiarazioni[45]; nel luglio 1995 Scarantino ritrattò le sue accuse nel corso di un'intervista telefonica trasmessa da Studio Aperto, dichiarando di avere accusato degli innocenti[46]. Tuttavia i giudici non ritennero veritiera tale ritrattazione e nel 1996 la Corte d'Assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Renato Di Natale, condannò in primo grado Profeta, Orofino e Scotto all'ergastolo mentre Scarantino a diciotto anni di carcere[47]. Nel gennaio 1999 la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta, presieduta da Giovanni Marletta, giudicò inattendibile Scarantino perché smentito dalle dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia Giovan Battista Ferrante[48], assolvendo Pietro Scotto mentre la condanna di Orofino venne ridotta a nove anni, derubricandola in favoreggiamento; la condanna all'ergastolo per Profeta e quella a diciotto anni per Scarantino vennero invece confermate[49]. Nel dicembre 2000 tali condanne e l'assoluzione di Scotto vennero confermate dalla Corte di cassazione.[47] Borsellino bis Nel gennaio 1996 vennero rinviati a giudizio Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano e Salvatore Biondino (accusati da Scarantino di aver partecipato alla riunione in casa di Calascibetta in cui venne decisa l'uccisione di Borsellino) ma anche Francesco Tagliavia, Cosimo Vernengo, Natale ed Antonino Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso, Salvatore Tomaselli, Giuseppe Romano e Salvatore Vitale (accusati sempre da Scarantino di essersi occupati della preparazione dell'autobomba e del trasferimento della stessa sul luogo dell'attentato), i quali figurarono imputati nel secondo filone del processo per la strage di via D'Amelio (denominato "Borsellino bis"), che iniziò il 14 maggio dello stesso anno[50]. Nel settembre 1998, durante un'udienza, Scarantino ritrattò pubblicamente tutte le sue accuse, sostenendo di avere subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa e di essere stato costretto a collaborare dal questore La Barbera.[51] Tuttavia i giudici non credettero nuovamente a questa ennesima ritrattazione e nel 1999 la Corte d'Assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Pietro Falcone, condannò in primo grado Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia all'ergastolo mentre Giuseppe Calascibetta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo e Salvatore Vitale vennero condannati a dieci anni di carcere per associazione mafiosa ma assolti dal reato di strage; stessa cosa per Antonino Gambino, Gaetano Murana e Salvatore Tomaselli, che però furono condannati a otto anni; l'unico assolto fu Giuseppe Romano.[52][53] Durante il processo d'appello, venne acquisita anche la testimonianza del collaboratore di giustizia Calogero Pulci (ex mafioso di Sommatino e uomo di fiducia del boss Giuseppe "Piddu" Madonia), il quale dichiarò che Gaetano Murana gli avrebbe confidato in carcere di aver partecipato alle fasi esecutive della strage, confermando così le dichiarazioni di Scarantino[10][54]; inoltre nell'udienza del 23 maggio 2001 testimoniò anche il vicequestore Gioacchino Genchi (ex membro del gruppo investigativo "Falcone-Borsellino" del dirigente Arnaldo La Barbera), che avanzò l'ipotesi secondo cui il telecomando che provocò l'esplosione venne azionato dal castello Utveggio, sul monte Pellegrino, dove secondo le sue indagini si trovava una sede distaccata del SISDE, notizia che risultò falsa[48][55]. Infine nel marzo 2002 la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta, presieduta da Francesco Caruso, giudicò attendibile Pulci, condannando all'ergastolo per il reato di strage anche Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana, che in primo grado erano stati invece assolti da questa accusa; vennero anche confermati gli ergastoli inflitti a Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia e le condanne a dieci anni di carcere per Giuseppe Calascibetta e Salvatore Vitale, quelle a otto anni per Salvatore Tomaselli e Antonino Gambino, nonché l'assoluzione per Giuseppe Romano[56]. Nel luglio 2003 tali condanne e l'assoluzione di Romano vennero confermate dalla Corte di cassazione.[57] Borsellino ter Nel 1998 iniziò il terzo troncone del processo (denominato "Borsellino ter"), scaturito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giovan Battista Ferrante, Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Calogero Ganci, Antonino Galliano e Francesco Paolo Anzelmo: gli imputati erano Giuseppe "Piddu" Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia, Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Lucchese, Benedetto Spera e gli stessi collaboratori Brusca e Cancemi (accusati di essere i componenti delle "Commissioni" provinciale e regionale di Cosa nostra e quindi di avere avallato la realizzazione della strage) ma anche Salvatore Biondo (classe 1955), l'omonimo Salvatore Biondo (classe 1956), Domenico e Stefano Ganci, Cristofaro Cannella e lo stesso collaboratore Ferrante (accusati di avere provato il funzionamento del telecomando e dei congegni elettrici che servirono per l'esplosione e di avere segnalato telefonicamente gli spostamenti del giudice Borsellino e della scorta poco prima della strage).[14] Nel 1999 la Corte d'Assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Carmelo Zuccaro, condannò in primo grado all'ergastolo Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo (classe 1955), Cristofaro Cannella, Domenico e Stefano Ganci mentre il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi venne condannato a ventisei anni di carcere, l'altro collaboratore Giovan Battista Ferrante a ventitré anni, Francesco Madonia a diciotto anni, Salvatore Biondo (classe 1956) a dodici anni mentre Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Lucchese, Benedetto Spera e il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca a sedici anni[14][58]. Nel febbraio 2002 la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta, presieduta da Giacomo Bodero Maccabeo, modificò la sentenza di primo grado: vennero condannati all'ergastolo Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele e Domenico Ganci, Francesco Madonia, Giuseppe Montalto, Filippo Graviano, Cristofaro Cannella, Salvatore Biondo (classe 1955) e Salvatore Biondo (classe 1956); Stefano Ganci venne condannato a vent'anni di carcere, Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Salvatore Montalto e Matteo Motisi a sedici anni per associazione mafiosa (ma assolti dal reato di strage) mentre venne confermata la pena per Agate, Buscemi, Spera e Lucchese; invece i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e Giovan Battista Ferrante ricevettero pene tra i diciotto e i sedici anni.[59] Nel gennaio 2003 la Corte di cassazione annullò con rinvio alla Corte d'assise d'appello di Catania le assoluzioni dall'accusa di strage per Salvatore Buscemi, Giuseppe Farinella, Benedetto Santapaola e Antonino Giuffrè, mentre venne annullata con rinvio anche la condanna per associazione mafiosa per Giuseppe Madonia e Giuseppe Lucchese; le altre condanne e assoluzioni vennero invece confermate.[60] Il 9 luglio 2003 lo stralcio del Borsellino ter e parte del procedimento per la strage di Capaci, entrambi rinviati dalla Cassazione alla Corte d'assise d'appello di Catania, vennero riuniti in un unico processo perché avevano imputati in comune:[61] vennero ascoltati in aula i nuovi collaboratori di giustizia Antonino Giuffrè, Ciro Vara e Calogero Pulci (che resero dichiarazioni sulle riunioni delle "Commissioni" provinciale e regionale di Cosa nostra in cui vennero decise le stragi)[11] e nell'aprile 2006 la Corte d'assise d'appello di Catania condannò all'ergastolo Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi e Benedetto Santapaola mentre, per la strage di Capaci, vennero condannati all'ergastolo anche Giuseppe Montalto, Giuseppe Madonia, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Mariano Agate e Benedetto Spera; Antonino Giuffrè e Stefano Ganci vennero condannati rispettivamente a venti e ventisei anni di carcere; Giuseppe Lucchese venne invece assolto.[62] Nel settembre 2008 la Corte di Cassazione confermò questa sentenza.[63] La riapertura delle indagini e il processo Borsellino quater Lo stesso argomento in dettaglio: Processo Borsellino quater. Nel giugno 2008 Gaspare Spatuzza (ex mafioso di Brancaccio) iniziò a collaborare con la giustizia e si autoaccusò del furto della Fiat 126 utilizzata nell'attentato, smentendo la versione data dai collaboratori di giustizia Scarantino e Candura: in particolare Spatuzza dichiarò di avere compiuto il furto dell'auto la notte dell'8 luglio 1992 (undici giorni prima dell'attentato) insieme al suo sodale Vittorio Tutino, su incarico di Cristofaro Cannella e Giuseppe Graviano (capo della Famiglia di Brancaccio); Spatuzza riferì anche che portò l'auto rubata nell'officina di tale Maurizio Costa (dove vennero riparati i freni e la frizione danneggiati) e poi il 18 luglio (il giorno prima della strage) in un altro garage vicino a via D'Amelio, dove Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia provvidero a preparare l'innesco e l'esplosivo all'interno dell'auto.[10][64] In seguito a queste dichiarazioni, la Procura di Caltanissetta, guidata dal Procuratore capo Sergio Lari, affiancato dai procuratori aggiunti Domenico Gozzo e Amedeo Bertone e dai pm Nicolò Marino, Gabriele Paci e Stefano Luciani, riaprì le indagini sulla strage di via D'Amelio[65]: nel 2009 gli ex collaboratori di giustizia Scarantino, Candura e Andriotta confessarono ai magistrati di essere stati costretti a collaborare dal dirigente della Squadra mobile La Barbera e dal suo gruppo investigativo, che li sottoposero a forti pressioni psicologiche, maltrattamenti e minacce per spingerli a dichiarare il falso, mentre l'ex collaboratore Calogero Pulci sostenne di avere agito di sua iniziativa perché, a suo dire, voleva aiutare gli inquirenti.[10] Nell'aprile 2011 anche Fabio Tranchina (ex uomo di fiducia di Giuseppe Graviano) iniziò a collaborare con la giustizia, confermando le dichiarazioni di Spatuzza: infatti Tranchina riferì che una settimana prima della strage aveva compiuto due appostamenti in via D'Amelio insieme a Graviano, il quale gli chiese anche di procurargli un appartamento nelle vicinanze ma poi gli disse che aveva deciso di piazzarsi nel giardino dietro un muretto in fondo a via D'Amelio per azionare il telecomando che provocò l'esplosione.[10][66] Per queste ragioni, il 27 ottobre dello stesso anno la Corte d'assise d'appello di Catania dispose la sospensione della pena per Salvatore Profeta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Vincenzo Scarantino, che erano stati condannati nei processi "Borsellino uno" e "Borsellino bis".[67] Il 2 marzo 2012 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta Alessandra Giunta emise un'ordinanza di custodia cautelare per Vittorio Tutino, Calogero Pulci (accusato di calunnia), Salvatore Madonia (accusato di essere stato un componente della "Commissione provinciale" di Cosa nostra in qualità di reggente del mandamento di Resuttana e quindi di avere avallato la strage) e Salvatore Vitale (accusato da Spatuzza di avere messo a disposizione il suo maneggio per la consegna delle targhe rubate da apporre sull'autobomba per evitarne l'identificazione e di avere controllato le visite del giudice Borsellino alla madre poiché abitava nello stesso palazzo in via D'Amelio):[10][65] tuttavia il procedimento a carico di Vitale venne sospeso per via delle sue gravi condizioni di salute, che lo portarono alla morte qualche tempo dopo;[17] infine, nel novembre dello stesso anno, la Procura di Caltanissetta chiuse le indagini sulla strage.[68] Il 13 marzo 2013 il giudice dell'udienza preliminare di Caltanissetta condannò con il rito abbreviato i collaboratori Spatuzza e Tranchina rispettivamente a quindici e dieci anni di carcere per il loro ruolo avuto nella strage, mentre l'ex collaboratore Salvatore Candura venne condannato a dodici anni per calunnia aggravata;[69] qualche giorno dopo si aprì il quarto processo per la strage di via D'Amelio (denominato "Borsellino quater"), che vedeva imputati Vittorio Tutino, Salvatore Madonia e gli ex collaboratori Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci.[70] Nell'aprile 2017 la Corte d'assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Antonio Balsamo, condannò in primo grado Tutino e Madonia all'ergastolo per il reato di strage mentre gli ex collaboratori Andriotta e Pulci vennero condannati a dieci anni di carcere per calunnia; il reato di Scarantino venne invece prescritto grazie alla concessione delle attenuanti per essere stato indotto a rendere false dichiarazioni[71]. Il 15 novembre 2019 la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta, presieduta dal giudice Andreina Occhipinti, confermò le condanne di primo grado e la prescrizione per Scarantino[72][73]. Il 5 ottobre 2021 la Cassazione confermò integralmente tale sentenza.[74] Processo nei confronti di Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e via D'Amelio Lo stesso argomento in dettaglio: Matteo Messina Denaro. Matteo Messina Denaro in una foto di repertorio Nel gennaio 2016 il gup di Caltanissetta emise un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Matteo Messina Denaro, capomandamento di Castelvetrano latitante dal 1993, con l'accusa di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D'Amelio[75]. L'imputazione si basava sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia già acquisite nei vari processi sulle stragi che si sono celebrati negli anni precedenti: infatti, secondo i collaboratori Vincenzo Sinacori, Francesco Geraci e Giovanni Brusca, nel settembre 1991 Messina Denaro partecipò a una riunione a Castelvetrano in cui Salvatore Riina comunicò la decisione di dare il via alla strategia stragista, inviando appunto a Roma il boss castelvetranese insieme ad altri mafiosi per uccidere Giovanni Falcone, salvo poi richiamarli in Sicilia per eseguire l'attentato diversamente[76]; inoltre, sempre secondo Sinacori, Geraci e Brusca, lo stesso Messina Denaro avrebbe progettato l'omicidio di Paolo Borsellino mentre questi era Procuratore capo a Marsala poiché il giudice era stato tra i primi inquirenti, insieme al commissario Calogero Germanà, ad indagare sulle attività della "famiglia" Messina Denaro, all'epoca pressoché sconosciuta agli organi investigativi, ed infatti aveva emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa nei confronti del "patriarca" Francesco Messina Denaro, padre di Matteo[75][77][78]. Per questi motivi, l'anno successivo il gup di Caltanissetta Marcello Testaquadra dispose il rinvio a giudizio per Messina Denaro con l'accusa di strage; il processo si aprì il 13 marzo dello stesso anno[79][80][81]. Il 20 ottobre 2020 la Corte d'assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Roberta Serio, condannò all'ergastolo Messina Denaro in contumacia per il reato di strage[78]. Il 16 gennaio 2023 Messina Denaro fu arrestato a Palermo dal ROS dei Carabinieri, dopo trent'anni di latitanza[82]. Il 18 luglio dello stesso anno, in concomitanza con il trentunesimo anniversario della strage di via D'Amelio, la condanna è stata confermata in appello.[83] L'indagine sulle dichiarazioni di Avola e la sua incriminazione per calunnia Nel 2019 la Procura di Caltanissetta, nelle persone del procuratore capo Amedeo Bertone e dei procuratori aggiunti Gabriele Paci e Pasquale Pacifico, iscrisse nel registro degli indagati i mafiosi catanesi Maurizio Avola, Aldo Ercolano e Marcello D'Agata per il reato di strage, a seguito delle nuove dichiarazioni dello stesso Avola che, a quasi trent'anni dall'inizio della sua collaborazione con la giustizia, si autoaccusò di aver fornito supporto ai mafiosi palermitani insieme ad Ercolano e D'Agata nella realizzazione della strage di via D'Amelio.[84][85] Nel 2022 la Procura di Caltanissetta, nelle persone del nuovo procuratore capo Salvatore De Luca, dei sostituti della DNA Domenico Gozzo e Francesco Del Bene e dei sostituti procuratori Nadia Caruso e Marcello Pacifico, richiese l'archiviazione dell'indagine a carico di Avola, Ercolano e D'Agata perché non si trovarono riscontri alle accuse di Avola in quanto le indagini svolte avevano permesso di accertare che il collaboratore di giustizia nel giorno della strage non poteva trovarsi a Palermo, come da lui riferito, poiché era a Catania con il braccio ingessato ed inoltre il suo racconto era smentito dall'unico superstite della strage, l'ex agente di scorta Antonio Vullo[85][86]. Per questo motivo, Avola risultava indagato dalla Procura di Caltanissetta per autocalunnia e calunnia aggravate dal settembre 2021[84]. Nell'ottobre 2023 il gip di Caltanissetta Santi Bologna rigettò la richiesta d'archiviazione e richiese nuovi accertamenti sulle dichiarazioni di Avola.[86] Vicende collegate L'indagine sui "mandanti occulti" Lo stesso argomento in dettaglio: Bombe del 1992-1993. Nel 1993 la Procura di Caltanissetta aprì un secondo filone d'indagine parallelo per accertare le responsabilità nelle stragi di Capaci e via D'Amelio di eventuali suggeritori o concorrenti esterni all'organizzazione mafiosa (i cosiddetti "mandanti occulti" o "a volto coperto"): nel 1998 vennero iscritti nel registro degli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri sotto le sigle "Alfa" e "Beta" per concorso in strage, soprattutto in seguito alle dichiarazioni de relato del collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi;[87] tuttavia nel 2002 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò l'inchiesta su "Alfa" e "Beta" al termine delle indagini preliminari, poiché non si era potuta trovare la conferma delle chiamate de relato.[88] Nel 1994 la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati l'ex funzionario di Polizia e dirigente del SISDE Bruno Contrada (già sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa) per concorso in strage[89], sulla base della testimonianza dell'allora capitano dei carabinieri Umberto Sinico, il quale, pochi giorni dopo la strage, aveva rivelato ai magistrati di aver saputo da una «fonte segreta» che Contrada era stato fermato in via D'Amelio dalla prima volante accorsa dopo l'esplosione ma la relazione di servizio che lo attestava era stata distrutta su ordine dei loro superiori[90]; a ciò si aggiunsero nel 1997 le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Elmo (faccendiere implicato in vari traffici illeciti, che affermava di aver militato nell'Organizzazione Gladio) il quale sosteneva di essere passato per caso nei pressi di via D'Amelio dopo l'attentato e di aver visto Contrada tra le fiamme allontanarsi con una borsa[91]: dopo vari tentennamenti, Sinico rivelò finalmente che la sua «fonte segreta» era il funzionario di polizia Roberto Di Legami, il quale negò la circostanza e, per questo motivo, nel 2002 venne rinviato a giudizio per falsa testimonianza, venendo poi assolto con formula piena tre anni dopo[92][93]. Nel gennaio 2002 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò la posizione di Contrada perché le prove non erano sufficienti e poiché era stato dimostrato che l'ex funzionario, nelle ore della strage, si trovava in barca al largo di Palermo insieme ad amici[94]. Sempre nel 2002, la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati anche gli imprenditori Antonino Buscemi, Pino Lipari, Giovanni Bini, Antonino Reale, Benedetto D'Agostino e Agostino Catalano (ex titolari di grandi imprese edili collegate alla Calcestruzzi S.p.A. del Gruppo Ferruzzi-Gardini che si occupavano dell'illecita gestione dei grandi appalti per conto dell'organizzazione mafiosa) per concorso in strage, in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Angelo Siino e Giovanni Brusca:[95][96] le indagini infatti ipotizzarono un interesse che alcuni ambienti politico-imprenditoriali e mafiosi avevano di evitare lo sviluppo e l'approfondire delle indagini che i giudici Falcone e Borsellino stavano conducendo sul dossier denominato "Mafia e Appalti" insieme al ROS;[96][97] tuttavia nel 2003 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò le indagini sugli accusati perché "gli elementi raccolti non appaiono idonei a sostenere l'accusa" in giudizio.[96] Nel 2009, sulla base delle nuove rivelazioni dei collaboratori di giustizia Vito Lo Forte e Francesco Marullo, la Direzione Nazionale Antimafia guidata da Pietro Grasso identificò "faccia da mostro" (fantomatico killer con il volto deturpato al soldo di mafia e servizi segreti deviati) in Giovanni Aiello[98][99], un ex poliziotto che aveva prestato servizio in Sicilia e poi era stato congedato perché sfigurato a una guancia da una fucilata[100]: sempre nello stesso anno, la Procura di Caltanissetta iscrisse Aiello nel registro degli indagati per concorso nelle stragi di Capaci e via D'Amelio (ma anche per il fallito attentato all'Addaura) poiché appunto i due collaboranti avevano parlato di un suo presunto ruolo nei tre attentati[101]; l'indagine venne però archiviata nel 2012 dal giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta perché non si trovarono conferme al racconto di Lo Forte e Marullo, pur sostenendo che «molteplici altre circostanze inducono a identificare il soggetto di cui hanno parlato i collaboratori Lo Forte e Marullo nella persona dell'odierno indagato».[98][102] Nel 2010 la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati l'ex funzionario del SISDE Lorenzo Narracci (braccio destro di Bruno Contrada) per concorso in strage, in quanto il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza l'avrebbe riconosciuto fotograficamente come l'uomo misterioso presente nel garage dove venne preparata l'autobomba[10][103]; Narracci si difese affermando che nelle ore della strage si trovava ad una gita in barca al largo di Palermo insieme al collega Contrada ed altri amici[94] e nel 2016 le accuse vennero archiviate poiché il riconoscimento effettuato da Spatuzza non era certo[10][104]. L'indagine sulla scomparsa dell'agenda rossa Nel febbraio 2006 la Procura di Caltanissetta aprì un'indagine sulla scomparsa dell'agenda rossa del giudice Borsellino, in seguito alla segnalazione di una fotografia scattata da un giornalista subito dopo l'attentato in cui si vedeva l'allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli che si allontanava da via D'Amelio con la borsa del giudice Borsellino, che venne ritrovata nell'auto distrutta dall'esplosione dopo alcune ore. Interrogato dai magistrati, Arcangioli (diventato colonnello) sostenne di avere consegnato la borsa ai giudici Vittorio Teresi e Giuseppe Ayala (i quali erano sopraggiunti sul luogo della strage), ma essi negarono la circostanza: per queste ragioni, il colonnello Arcangioli venne inizialmente indagato per false dichiarazioni[105] ma nel febbraio 2008 il giudice per le indagini preliminari lo incriminò anche per il furto dell'agenda rossa e la Procura di Caltanissetta ne chiese il rinvio a giudizio:[106] tuttavia il giudice dell'udienza preliminare rigettò la richiesta, sostenendo che non vi erano le prove per un'incriminazione di Arcangioli poiché la borsa in questione rimase per quattro mesi presso la squadra mobile di Palermo senza essere aperta e quindi l'agenda potrebbe essere stata sottratta in un momento successivo ma avanzò anche l'ipotesi che, al momento dell'attentato, Borsellino avesse l'agenda rossa in mano e non nella borsa (come testimoniato dall'agente sopravvissuto Antonio Vullo)[2] e quindi questa andò distrutta nell'esplosione. Per questi motivi, la Procura di Caltanissetta fece ricorso in Cassazione, che però non lo accolse, sostenendo la tesi del giudice dell'udienza preliminare.[10] Nel novembre 2023 la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati la moglie e la figlia del defunto funzionario di polizia Arnaldo La Barbera con l‘accusa di ricettazione aggravata dal favoreggiamento a Cosa nostra poiché, secondo le dichiarazioni fornite da un amico di famiglia agli inquirenti, sarebbero in possesso dell’agenda rossa; tuttavia l’agenda non è stata ritrovata nel corso delle perquisizioni effettuate a casa di Angiola e Serena La Barbera, funzionario della presidenza del Consiglio che si occupa di sicurezza nazionale, e di altri parenti.[107][108] La strage di via D'Amelio nel processo sulla presunta "trattativa Stato-mafia" Lo stesso argomento in dettaglio: Processo sulla trattativa Stato-mafia e Trattativa Stato-mafia. Nel 2009, in seguito alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino che riguardavano l'inchiesta sulla cosiddetta "trattativa Stato-mafia", le Procure di Caltanissetta e Palermo ascoltarono le testimonianze di Liliana Ferraro (ex vice direttore degli affari penali presso il Ministero della giustizia) e dell'ex ministro Claudio Martelli, i quali confermarono di essere stati avvicinati dall'allora colonnello dei carabinieri Mario Mori che chiedeva "copertura politica" per i suoi contatti con Vito Ciancimino al fine di fermare le stragi; in particolare la Ferraro dichiarò che ne parlò con il giudice Borsellino, che si dimostrò già informato dei contatti tra Ciancimino e i carabinieri.[109] Infatti l'inchiesta fece emergere che il 25 giugno 1992 (circa un mese prima di essere ucciso) Borsellino s'incontrò con il colonnello Mori e con l'allora capitano Giuseppe De Donno: secondo quanto dichiarato da Mori e De Donno ai magistrati, durante quell'incontro Borsellino si limitò a parlare con loro sulle indagini dell'inchiesta "Mafia e Appalti".[109] Nello stesso periodo, Agnese Piraino Leto (vedova di Borsellino) dichiarò ai magistrati che, qualche giorno prima di essere ucciso, il marito le confidò che il generale dei carabinieri Antonio Subranni (diretto superiore del colonnello Mori) era vicino ad ambienti mafiosi e che c'era un contatto tra mafia e parti deviate dello Stato.[10] I magistrati di Palermo e Caltanissetta acquisirono anche le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca nel processo "Borsellino ter",[14] in cui affermavano che Salvatore Riina fece sospendere la preparazione dell'attentato contro l'onorevole Calogero Mannino e insistette particolarmente per accelerare l'uccisione di Borsellino ed eseguirla con modalità eclatanti[10]; in particolare, Riina avrebbe detto a Brusca che la trattativa si era improvvisamente interrotta e c'era «un muro da superare» e, secondo il magistrato Nino Di Matteo (che condusse le indagini sulla "Trattativa"), la strage di via D'Amelio fu eseguita per «proteggere la trattativa dal pericolo che il dott. Borsellino, venutone a conoscenza, ne rivelasse e denunciasse pubblicamente l'esistenza, in tal modo pregiudicandone irreversibilmente l'esito auspicato»[109] Per quanto riguarda la complessa vicenda processuale, il 4 novembre 2015 il giudice dell'udienza preliminare di Palermo, Marina Petruzzella ha assolto Calogero Mannino (giudicato con il rito abbreviato) dall'accusa a lui contestata per "non aver commesso il fatto"[110]; la sentenza di assoluzione è stata confermata in appello il 22 luglio 2019[111] e anche dalla Cassazione l'11 dicembre 2020[112]. Per gli imputati giudicati con il rito ordinario, Il 20 aprile 2018 la Corte d'assise di Palermo, presieduta dal dott. Alfredo Montalto, pronunciò la sentenza di primo grado, con la quale vennero condannati a dodici anni di carcere Mario Mori, Antonio Subranni, Marcello Dell'Utri, Antonino Cinà, ad otto anni Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino (per lui il reato venne prescritto), a ventotto anni Leoluca Bagarella; vennero inoltre prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti di Giovanni Brusca, e venne assolto Nicola Mancino[113]. Il 23 settembre 2021 la Corte d'assise d'appello di Palermo ribaltò la sentenza di primo grado e assolse Mori, Subranni e De Donno perché "il fatto non costituisce reato" e l'ex senatore Dell'Utri "per non aver commesso il fatto", mentre confermò la prescrizione per Brusca e la condanna a dodici anni del capomafia Antonino Cinà e ridusse a ventisette anni la pena al boss Bagarella.[114] Il 27 aprile 2023 la Cassazione ha confermato l'assoluzione nei confronti di Mori, De Donno e Subranni, però con la formula "per non avere commesso il fatto", ed anche quella per Dell'Utri, mentre per Bagarella e Cinà ha dichiarato la prescrizione del reato.[115] Processo sul presunto depistaggio delle indagini Nel luglio 2018 la Procura di Caltanissetta chiese il rinvio a giudizio per il funzionario di polizia Mario Bo e per gli ispettori Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, con l'accusa di calunnia in concorso; i tre infatti avevano fatto parte del gruppo investigativo "Falcone-Borsellino" guidato dal dirigente della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002) che si occupò delle prime indagini sulla strage di via D'Amelio e avevano gestito la controversa collaborazione con la giustizia di Vincenzo Scarantino: secondo le indagini della Procura di Caltanissetta e le prove emerse durante il processo di primo grado denominato "Borsellino quater", i tre poliziotti avrebbero indotto Scarantino a rendere false dichiarazioni sottoponendolo a minacce, maltrattamenti e pressioni psicologiche[116][117][118]. Il processo iniziò il 5 novembre dello stesso anno dinanzi al Tribunale di Caltanissetta[119]. Il 12 luglio 2022 la Corte d'assise di Caltanissetta dichiarò prescritto il reato per Mario Bo e Fabrizio Mattei mentre Ribaudo fu assolto "perché il fatto non costituisce reato".[120] Il 3 giugno 2024 la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermò la prescrizione per Bo e Mattei ma dichiarò prescritto il reato anche per Ribaudo (che in primo grado era stato assolto)[121].

1992 Indagini e processi sulla strage di Capaci

Prima indagine e processo "Capaci uno" Le prime indagini sulla strage di Capaci vennero inizialmente coordinate dal Procuratore capo uscente di Caltanissetta Salvatore Celesti e il 15 luglio 1992 passarono al suo successore Giovanni Tinebra, cui vennero aggregati i sostituti procuratori Ilda Boccassini, Francesco Paolo Giordano e Fausto Cardella[33]. I primi risultati investigativi si ebbero nel marzo del 1993, quando, su indicazione del neo-pentito Giuseppe Marchese (cognato di Leoluca Bagarella), gli agenti della Direzione Investigativa Antimafia, diretta da Gianni De Gennaro, riuscirono ad individuare il covo dove si nascondevano Antonino Gioè, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera[34] (un anonimo condominio in via Ughetti n.17 a Palermo) ed, intercettando le loro conversazioni, si scoprì che facevano esplicito riferimento all'attentato di Capaci da loro commesso[35][36][37][38]. Dopo essere stato arrestato, Gioè si suicidò nella sua cella, probabilmente perché aveva scoperto di essere stato intercettato mentre parlava dell'attentato di Capaci e di alcuni boss e quindi temeva una vendetta trasversale[39]; invece Di Matteo e La Barbera decisero di collaborare con la giustizia e rivelarono per primi i nomi degli altri esecutori della strage. Per costringere Di Matteo a ritrattare le sue dichiarazioni, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro decisero di rapire il figlioletto Giuseppe, che venne brutalmente strangolato e sciolto nell'acido dopo 779 giorni di prigionia[40]. Nonostante ciò, Di Matteo continuò la sua collaborazione con la giustizia[41]. Si trattò della prima indagine giudiziaria in Italia in cui si applicò l'analisi del DNA in ambito forense[42]: nei giorni successivi alla strage, gli investigatori trovarono, su una collinetta sovrastante l’autostrada, diversi mozziconi di sigaretta lasciati per terra dai presunti assassini[43] e, a seguito di analisi comparative sulla saliva condotte dalla DIA in collaborazione con un team dell'FBI statunitense inviato appositamente in Italia[44][45], il DNA estratto risultò compatibile con quello dei due indagati principali, La Barbera e Di Matteo[14][46][47]. Nell'aprile 1995 iniziò il processo per la strage di Capaci[48], che aveva come imputati Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Filippo e Giuseppe Graviano, Michelangelo La Barbera, Salvatore e Giuseppe Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Benedetto Spera, Benedetto Santapaola, Giuseppe "Piddu" Madonia, Mariano Agate, Giuseppe Lucchese, Antonino Giuffrè, Salvatore Buscemi, Francesco Madonia e Giuseppe Farinella (accusati di essere i componenti delle "Commissioni" provinciale e regionale di Cosa Nostra e quindi di avere avallato la realizzazione della strage) ma anche Leoluca Bagarella, Giovanni Battaglia, Salvatore Biondino, Salvatore Biondo, Raffaele e Domenico Ganci, Pietro Rampulla, Antonino Troia, Giuseppe Agrigento, Salvatore Sbeglia, Giusto Sciarrabba e i collaboratori di giustizia Santino Di Matteo, Gioacchino La Barbera, Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Antonino Galliano e Calogero Ganci (accusati di avere partecipato a vario titolo nell'esecuzione della strage e nel reperimento di esplosivi e telecomando che servì per l'esplosione)[16]. A rappresentare l'accusa vennero nominati i pubblici ministeri Francesco Paolo Giordano e Luca Tescaroli[49]. Nel 1997 la Corte d'Assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Carmelo Zuccaro, condannò in primo grado all'ergastolo Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Bernardo Brusca, Leoluca Bagarella, Raffaele e Domenico Ganci, Giovanni Battaglia, Salvatore Biondino, Salvatore Biondo, Giuseppe Calò, Filippo e Giuseppe Graviano, Michelangelo La Barbera, Salvatore e Giuseppe Montalto, Matteo Motisi, Pietro Rampulla, Bernardo Provenzano, Benedetto Spera, Antonino Troia, Benedetto Santapaola e Giuseppe Madonia mentre vennero assolti Mariano Agate, Giuseppe Lucchese, Salvatore Sbeglia, Giusto Sciarrabba, Salvatore Buscemi, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Francesco Madonia e Giuseppe Agrigento (che però venne condannato per detenzione di materiale esplosivo)[16]; i collaboratori Santino Di Matteo, Gioacchino La Barbera, Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Antonino Galliano e Calogero Ganci vennero invece condannati a pene tra i quindici e i ventuno anni di carcere[16][50]. Nell'aprile 2000 la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta confermò tutte le condanne e le assoluzioni di primo grado ma condannò all'ergastolo anche Salvatore Buscemi, Francesco Madonia, Antonino Giuffrè, Mariano Agate e Giuseppe Farinella[51]. Nel maggio 2002 la Corte di cassazione annullò con rinvio alla Corte d'assise d'appello di Catania le condanne di Pietro Aglieri, Salvatore Buscemi, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Francesco Madonia, Giuseppe Madonia, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi e Benedetto Spera[52]. Nel luglio 2003 una parte del procedimento per la strage di Capaci e lo stralcio del processo "Borsellino ter" (che riguardava la strage di via D'Amelio) vennero riuniti in un unico processo perché avevano imputati in comune[53]: vennero ascoltati in aula i nuovi collaboratori di giustizia Antonino Giuffrè, Ciro Vara e Calogero Pulci (che resero dichiarazioni sulle riunioni delle "Commissioni" provinciale e regionale di Cosa Nostra in cui vennero decise le stragi[54]) e nell'aprile 2006 la Corte d'assise d'appello di Catania condannò dodici persone in quanto ritenute mandanti di entrambe le stragi: Giuseppe e Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto Spera, Giuseppe Madonia, Carlo Greco, Stefano Ganci, Antonino Giuffrè, Pietro Aglieri, Benedetto Santapaola, Mariano Agate mentre Giuseppe Lucchese venne assolto[55]; nel 2008 la prima sezione penale della Cassazione confermò la sentenza[56]. Nuove indagini e processo "Capaci bis" Nel giugno 2008 Gaspare Spatuzza (ex mafioso di Brancaccio) iniziò a collaborare con la giustizia e dichiarò ai magistrati di Caltanissetta che circa un mese prima della strage di Capaci si recò a Porticello insieme ad altri mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille (Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino, Lorenzo Tinnirello) per ricevere da un certo Cosimo alcuni residuati bellici recuperati in mare[57]; Spatuzza dichiarò anche che gli ordigni furono poi portati in un magazzino nella sua disponibilità dove provvidero ad estrarre l'esplosivo dalle bombe, che venne travasato in sacchi della spazzatura ed in seguito consegnato a Giuseppe Graviano per essere utilizzato nella strage di Capaci e negli altri attentati che seguirono[57]. Dopo queste dichiarazioni, la Procura di Caltanissetta riaprì le indagini sulla strage di Capaci: nell'aprile 2013 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta emise un'ordinanza di custodia cautelare per il pescatore Cosimo D'Amato (identificato dalle indagini nel Cosimo indicato da Spatuzza), Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino, Lorenzo Tinnirello e Salvatore Madonia (accusato di essere stato un componente della "Commissione provinciale" di Cosa Nostra in qualità di reggente del "mandamento" di Resuttana e quindi di avere avallato la strage)[58]. Nel maggio 2014 ebbe inizio il secondo troncone del processo per la strage di Capaci, denominato "Capaci bis", che aveva come imputati Salvatore Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello[59]; a novembre il giudice dell'udienza preliminare di Caltanissetta condannò con il rito abbreviato Giuseppe Barranca e Cristofaro Cannella all'ergastolo mentre Cosimo D'Amato e il collaboratore Gaspare Spatuzza vennero condannati rispettivamente a trent'anni e a dodici anni di carcere.[60] Nel 2015, durante il processo, lo stesso D'Amato iniziò a collaborare con la giustizia e confermò anche in aula il suo coinvolgimento nella fornitura di esplosivi ai mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille[61][62]. Il 26 luglio 2016 la Corte d'Assise di Caltanissetta condannò in primo grado Madonia, Lo Nigro, Pizzo e Tinnirello all'ergastolo mentre Tutino venne assolto "per non aver commesso il fatto"[63]. Durante il processo d'appello, vennero chiamati a deporre i collaboratori di giustizia Pietro Riggio, Maurizio Avola e Natale Di Raimondo, oltre al boss catanese Marcello D'Agata (che si avvalse della facoltà di non rispondere)[64]: Avola (già sentito nel processo "Capaci uno"[65]) rese nuove dichiarazioni e si autoaccusò di aver trasportato detonatori ed esplosivo utilizzati nella strage da Catania a Termini Imerese insieme a D'Agata, mettendoli a disposizione di Cosa Nostra palermitana, ma venne smentito dalle dichiarazioni di Di Raimondo[66][67]; il collaboratore Riggio (ex agente di Polizia penitenziaria ed esattore per conto della Famiglia di Caltanissetta) dichiarò che il suo compagno di cella, l'ex poliziotto Giovanni Peluso, gli avrebbe confidato di aver lavorato per il SISDE e di aver partecipato alle fasi esecutive della strage[68]; chiamato a testimoniare, Peluso (nel frattempo indagato della Procura di Caltanissetta per strage e associazione mafiosa a seguito delle accuse di Riggio[69]) dichiarò che il giorno della strage si trovava all'Istituto Superiore di Polizia per un corso[70]. Inoltre nell'udienza del 15 gennaio 2020 testimoniò anche la genetista Nicoletta Resta, che avanzò l'ipotesi secondo cui ci possa essere stata anche una donna sul luogo della strage poiché resti di DNA femminile sono stati estratti dall'analisi di reperti rinvenuti nei pressi del luogo dell'esplosione[71]. Infine il 21 luglio 2020 la Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta confermò le condanne all'ergastolo per Madonia, Lo Nigro, Pizzo e Tinnirello e l'assoluzione di Tutino[72][73]. Tale sentenza fu confermata dalla Cassazione e divenne definitiva nel giugno 2022[74][75]. Processo nei confronti di Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e via d'Amelio Lo stesso argomento in dettaglio: Matteo Messina Denaro. Matteo Messina Denaro in una foto di repertorio. Nel gennaio 2016 il gup di Caltanissetta emise un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Matteo Messina Denaro, capomandamento di Castelvetrano latitante dal 1993, con l'accusa di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via d'Amelio[76]. L'imputazione si basava sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia già acquisite nei vari processi sulle stragi che si sono celebrati negli anni precedenti: infatti, secondo i collaboratori Vincenzo Sinacori, Francesco Geraci e Giovanni Brusca, nel settembre 1991 Messina Denaro partecipò ad una riunione a Castelvetrano in cui Salvatore Riina comunicò la decisione di dare il via alla strategia stragista, inviando appunto a Roma il boss castelvetranese insieme ad altri mafiosi per uccidere Giovanni Falcone, salvo poi richiamarli in Sicilia per eseguire l'attentato diversamente[77]; inoltre, sempre secondo Sinacori, Geraci e Brusca, lo stesso Messina Denaro avrebbe progettato l'omicidio di Paolo Borsellino mentre questi era Procuratore capo a Marsala poiché il giudice stava disturbando gli interessi di Cosa Nostra nel trapanese con le sue indagini[76][78]. Per questi motivi, l'anno successivo il gup di Caltanissetta Marcello Testaquadra dispose il rinvio a giudizio per Messina Denaro con l'accusa di strage; il processo si aprì il 13 marzo dello stesso anno[79][80][81]. Il 20 ottobre 2020 la Corte d'assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Roberta Serio, condannò all'ergastolo Messina Denaro in contumacia per il reato di strage[78]. Il 16 gennaio 2023 Messina Denaro fu arrestato a Palermo dal ROS dei Carabinieri, dopo trent'anni di latitanza[82]. Il 18 luglio dello stesso anno, la condanna all'ergastolo è stata confermata in appello.[83] Indagine "Mandanti occulti" L'indagine su Berlusconi e Dell'Utri Nel 1993 la Procura di Caltanissetta aprì un secondo filone d'indagine parallelo per accertare le responsabilità nelle stragi di Capaci e via d'Amelio di eventuali suggeritori o concorrenti esterni all'organizzazione mafiosa (i cosiddetti "mandanti occulti" o "a volto coperto"): nel 1998 vennero iscritti nel registro degli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri sotto le sigle “Alfa” e “Beta” per concorso in strage; le indagini partirono da: le dichiarazioni di Salvatore Cancemi; i verbali relativi ai rapporti con Vittorio Mangano; le dichiarazioni successive di Tullio Cannella e Gioacchino La Barbera; le dichiarazioni di Gioacchino Pennino e Angelo Siino; gli esiti delle indagini della DIA e del Gruppo "Falcone-Borsellino"[84]. Tuttavia nel 2002 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò l'inchiesta su “Alfa” e “Beta” al termine delle indagini preliminari poiché non si era potuta trovare la conferma delle chiamate de relato[85]. Il gip, nel decreto di archiviazione, lascia alla valutazione dei pubblici ministeri di effettuare ulteriori indagini su «piste investigative diverse da quelle sinora perseguite» ritenendo che «tali accertati rapporti di società facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione collegati all'organizzazione Cosa nostra, costituiscono dati oggettivi che rendono quantomeno non del tutto implausibili né peregrine le ricostruzioni offerte dai diversi collaboratori di giustizia». Oltre a questo viene evidenziato anche che «gli atti del fascicolo hanno ampiamente dimostrato la sussistenza di varie possibilità di contatto tra gli uomini appartenenti a Cosa Nostra ed esponenti e gruppi societari controllati in vario modo dagli odierni indagati». Ma conclude affermando che «Occorre tuttavia verificare se effettivamente tali contatti vi siano stati e che esito abbiano avuto. Orbene le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che dovrebbero riscontrare tale ipotesi sono tutte "de relato" e, come si è visto, il più delle volte generiche ed incerte nei contenuti».[84] Nel 2006 l'ex Procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra fu iscritto nel registro degli indagati per favoreggiamento personale nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri a seguito delle accuse del pm incaricato di seguire le indagini sui "mandanti occulti", Luca Tescaroli, il quale affermò che il suo capo, Tinebra, voleva denunciare per calunnia il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi a causa delle sue dichiarazioni su Berlusconi; tuttavia, nello stesso anno, la Procura di Catania chiese l’archiviazione e il gip la concesse poiché Tinebra “non ha voluto favorire Berlusconi e Dell’Utri ma ha agito con la dovuta prudenza e attenzione al fine di non arrecare inutili danni e provocare situazioni meramente scandalistiche e strumentalizzazioni politiche”[86]. Filone d'indagine su "Mafia e Appalti" Nel 2002, la Procura di Caltanissetta guidata dal Procuratore capo Francesco Messineo, affiancato dai procuratori aggiunti Renato Di Natale e Francesco Paolo Giordano, iscrisse nel registro degli indagati gli imprenditori Antonino Buscemi, Pino Lipari, Giovanni Bini, Antonino Reale, Benedetto D'Agostino e Agostino Catalano (ex titolari di grandi imprese edili collegate alla Calcestruzzi S.p.A. del Gruppo Ferruzzi-Gardini che si occupavano dell'illecita spartizione degli appalti pubblici per conto dell'organizzazione mafiosa) per concorso in strage, in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Angelo Siino e Giovanni Brusca[87][88]: le indagini infatti ipotizzarono un interesse che alcuni ambienti politico-imprenditoriali e mafiosi avevano di evitare lo sviluppo e l'approfondire delle indagini che i giudici Falcone e Borsellino stavano conducendo sulla base del rapporto investigativo denominato "Mafia e Appalti" redatto nel 1991 dal ROS dell'Arma dei Carabinieri[88][89]; tuttavia nel 2003 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò le indagini sugli accusati perché "gli elementi raccolti non appaiono idonei a sostenere l'accusa" in giudizio[88]. Presunto ruolo di "faccia da mostro" Nel 2009, sulla base delle nuove rivelazioni dei collaboratori di giustizia Vito Lo Forte e Francesco Marullo, la Direzione Nazionale Antimafia guidata da Pietro Grasso identificò "faccia da mostro" (fantomatico killer con il volto deturpato al soldo di mafia e servizi segreti deviati) in Giovanni Aiello[90][91], un ex poliziotto che aveva prestato servizio in Sicilia e poi era stato congedato perché sfigurato ad una guancia da una fucilata[92]: sempre nello stesso anno, la Procura di Caltanissetta guidata dal Procuratore Sergio Lari, affiancato dall’aggiunto Nico Gozzo e dai pm Gabriele Paci e Stefano Luciani, iscrisse Aiello nel registro degli indagati per concorso nelle stragi di Capaci e via d'Amelio (ma anche per il fallito attentato all'Addaura) poiché appunto i due collaboranti avevano parlato di un suo presunto ruolo nei tre attentati[93]; l'indagine venne però archiviata nel 2012 dal giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta perché non si trovarono conferme al racconto di Lo Forte e Marullo, pur sostenendo che «molteplici altre circostanze inducono a identificare il soggetto di cui hanno parlato i collaboratori Lo Forte e Marullo nella persona dell'odierno indagato».[90][94] Momentanea conclusione Infine nel 2013 la Procura di Caltanissetta archiviò definitivamente l'inchiesta sui "mandanti occulti" poiché le indagini non avevano trovato ulteriori risultati investigativi: «Da questa indagine non emerge la partecipazione alla strage di Capaci di soggetti esterni a Cosa nostra. La mafia non prende ordini e dall'inchiesta non vengono fuori mandanti esterni. Possono esserci soggetti che hanno stretto alleanze con Cosa nostra ed alcune presenze inquietanti sono emerse nell'inchiesta sull'eccidio di Via D'Amelio: ma in questa indagine non posso parlare di mandanti esterni» (Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, in un'intervista al Giornale di Sicilia, aprile 2013[95]) Indagine su Paolo Bellini Nel 2023 la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati per il reato di concorso in strage l'ex terrorista di Avanguardia Nazionale Paolo Bellini, già in contatto con uno degli stragisti, Antonino Gioè, per il recupero di alcune tele rubate. Secondo le indagini, risulterebbero alcune sue presenze alberghiere in Sicilia all'epoca della strage, come confermato dall'ex moglie di Bellini, Maurizia Bonini.[96]

prowler americano era per la guerra elettronica ed in esercitazione sera strage di Ustica

Quel fatidico giorno, la portaerei americana in navigazione un centinaio di chilometri a sud di Trapani era impegnata in un’esercitazione no...