Pagine

sabato 7 settembre 2024

Sintesi processi e sentenze Golpe Borghese

Sintesi processi e sentenze Golpe Borghese wikipedia La prima inchiesta del 1971 Gli italiani vennero a conoscenza della vicenda solo il 17 marzo 1971, dalle pagine dell'edizione pomeridiana del quotidiano Paese Sera che titolò "Piano eversivo contro la repubblica, scoperto piano di estrema destra". A seguito della notizia, il Ministro degli Interni, Franco Restivo, in un discorso alla Camera dei deputati, confermò pubblicamente il tentativo di colpo di Stato organizzato nel dicembre 1970. Il 18 marzo il sostituto procuratore di Roma Claudio Vitalone firmò sei mandati di arresto con l'accusa di usurpazione dei poteri dello stato e cospirazione per il costruttore edile Remo Orlandini, Mario Rosa, Sandro Saccucci, Giuseppe Lo Vecchio, l'affarista Giovanni De Rosa e Junio Valerio Borghese, il quale però si rese irreperibile fuggendo in Spagna, allora soggetta al dittatore Francisco Franco.[20] Vito Miceli, Direttore del SID (Servizio Informazioni Difesa), era subentrato nel 1970 a Eugenio Henke che aveva assunto importanti incarichi militari[21]; fino ad allora Miceli aveva diretto il SIOS esercito e, probabilmente, da lunga data aveva sentore del golpe Borghese.[22] Fatto sta che i golpisti, opportunamente messi sull'avviso, poterono desistere dall'occupazione del Viminale senza patirne conseguenze.[23] Nella prima inchiesta giudiziaria del 1971, Miceli mantenne costantemente un atteggiamento reticente, negando sia la concreta rilevanza dell'azione di Borghese, sia la complicità degli apparati di sicurezza. Formalmente ne aveva avuto notizia dal suo subordinato (Ufficio «D») Gasca Queirazza,[24] il quale fu invitato dal Miceli a non immischiarsi, posto che sarebbe intervenuto personalmente. Tuttavia lui stesso, in un colloquio con il capo di stato maggiore della Difesa, era incorso in un'involontaria confessione della sua ampia conoscenza del piano.[25][26] Le indagini svolte successivamente dal SID furono mantenute strettamente circoscritte all'ambito del servizio, salvo una scarna informativa all'ufficio politico della questura di Roma.[27] La Procura della Repubblica di Roma dispose l'archiviazione dell'indagine del 1971 per mancanza di prove. Tra il 1971 e il 1974 si tentò di avallare nell'opinione pubblica italiana il convincimento che si fosse trattato dell'"operazione grottesca di un manipolo di vegliardi".[28] La seconda inchiesta del 1972 Una seconda inchiesta del 1972, condotta da Gian Adelio Maletti e Antonio Labruna (Ufficio «D» del SID), appurò una solida intesa tra Borghese, Miceli e Orlandini e persino la singolare circostanza che un armatore di Civitavecchia avesse messo a disposizione i propri mercantili per trasportare nelle Isole Lipari le persone catturate dai golpisti.[29] Una parte da protagonista sarebbe stata svolta dal dirigente della Selenia Hugh Fenwick,[30] che secondo Orlandini avrebbe funto da ufficiale di collegamento tra Borghese e Nixon, posto che il presidente USA fosse stato propenso a sostenere l'azione eversiva in parola.[29][31] L'intera "inchiesta Maletti" sul golpe Borghese, tuttavia, scaturiva per lo più dalle dichiarazioni di Orlandini, senza dare informazioni sull'eventuale conoscenza che autonomamente il SID aveva acquisito su tutta la questione.[32] Tale inchiesta fu recepita in un dossier del servizio informazioni difesa redatto dal generale Gian Adelio Maletti e dal colonnello Sandro Romagnoli. Nel dossier erano descritti il piano e gli obiettivi del tentato colpo di Stato, portando alla luce nuove informazioni che coinvolgevano anche Licio Gelli e la massoneria deviata.[33] L'informativa Labruna-Maletti venne poi trasmessa dal Ministro della Difesa Giulio Andreotti alla procura della Repubblica di Roma il 15 settembre 1974,[34] opportunamente censurata[35]. Il rapporto era quindi pervenuto alla Procura della Repubblica di Roma depurato delle suddette informazioni. Interrogato al riguardo dalla magistratura, Andreotti dichiarò di aver ritenuto di dover tagliare alcune parti del dossier e di non renderle pubbliche, in quanto tali informazioni erano «inessenziali» per il processo in corso e, anzi, avrebbero potuto risultare «inutilmente nocive» per i personaggi ivi citati poiché non c'erano prove certe.[33] Effettivamente la procura della Repubblica di Roma riaprì l'istruttoria e spiccò nuovi arresti formulando ulteriori accuse[36] ma, con ordinanza del giudice istruttore capitolino Filippo Fiore,[37] si statuì che il generale Vito Miceli «non era partecipe delle cose criminose» e se ne declassava l'apporto al rango di favoreggiamento.[38][39][40] In seguito, nel 1991, il giudice Guido Salvini, nell'ambito di un diverso procedimento, acquisirà dall'ex capitano Antonio Labruna (che lavorava per il Reparto D del SID), alcune registrazioni di interrogatori effettuati nel 1974 dal colonnello Romagnoli nei confronti di Torquato Nicoli e Maurizio Degli Innocenti (esponenti del Fronte Nazionale di Borghese). Emergerà solo allora che tra i nominativi espunti figurava anche l'ammiraglio Giovanni Torrisi, successivamente Capo di stato maggiore della Difesa tra il 1980 e il 1981, i nominativi e la compartecipazione di Licio Gelli, che si sarebbe dovuto occupare del rapimento del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, di alcuni appartenenti alla P2 e quelli di alcuni esponenti di Cosa Nostra.[12] Si fa presente che i nominativi dei generali Maletti e Miceli, così come l'ammiraglio Giovanni Torrisi e il capitano del SID Antonio Labruna erano tutti inseriti nell'elenco degli appartenenti alla Loggia Massonica P2, scoperta il 17 marzo 1981 nella villa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. Il 30 dicembre 1974 intervenne la Corte di Cassazione, unificando e trasferendo a Roma le coeve indagini dei giudici di Torino e di Padova concernenti l'organizzazione segreta La Rosa dei Venti che sostanzialmente riguardava un tentativo eversivo successivo al cosiddetto "golpe dell'Immacolata", benché vi fosse la comunanza di alcuni nomi (Amos Spiazzi, Vito Miceli). Ne conseguì che l'inchiesta sul gruppo veneto si arenò nel gran calderone del golpe Borghese.[41] In ogni caso, nel 1975, il pubblico ministero Claudio Vitalone nell'esprimere le conclusioni della sua requisitoria non era in possesso delle informazioni depennate dal Ministro della Difesa dal dossier Maletti-Romagnoli e nemmeno i giudici della Corte poterono tenerne conto.[42] Il processo di primo grado Il 30 maggio 1977 cominciò il processo per il golpe a 48 imputati. Anche Remo Orlandini dichiarò che la notte dell'8 dicembre, dopo l'avvio dell'operazione, ricevette una telefonata da Borghese il quale gli ordinava di rientrare, ma il motivo del contrordine era sconosciuto. Il 14 luglio 1978 la Corte d'assise di Roma inflisse 46 condanne da due a dieci anni di carcere per costituzione di associazione sovversiva finalizzata alla cospirazione contro i poteri dello Stato, ma assolvendo gli imputati dall'accusa di insurrezione armata. Le condanne più alte furono inflitte al costruttore Orlandini (dieci anni) e al maggiore Mario Rosa (otto). Tra gli altri condannatiː il deputato del Movimento Sociale Italiano ed ex paracadutista Sandro Saccucci (quattro anni) e il colonnello Amos Spiazzi (cinque anni). Ad Orlandini, Rosa, Stefano Delle Chiaie e Spiazzi fu comminata anche la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici; a Sandro Saccucci l'interdizione per cinque anni. L'ex capo del SID generale Vito Miceli fu assolto dall'accusa di favoreggiamento, perché "il fatto non sussiste"[43][44] Subito dopo la sentenza di primo grado il settimanale OP, diretto da Mino Pecorelli (tessera P2 n. 235, Roma) diffuse la notizia che solo una parte delle informazioni (da Pecorelli definita giornalisticamente "malloppino") fosse stata effettivamente posta a disposizione degli inquirenti e che quelle concernenti il coinvolgimento di alti ufficiali delle Forze Armate e dello stesso Servizio di informazione, con riferimenti a Licio Gelli (cosiddetto "malloppone"), erano state in realtà in larga parte soppresse[45]. Pecorelli, peraltro, non poté essere chiamato a riferire ai giudici d'appello perché il 20 marzo 1979 fu ucciso a pochi passi dalla redazione del suo giornale, da killer rimasti tuttora ignoti. Il giudizio di appello Il giudizio d'appello per il fallito golpe si concluse in Corte d'assise, il 27 novembre 1984, con l'assoluzione con la formula "perché il fatto non sussiste" dei 46 imputati già condannati in primo grado dall'accusa di cospirazione politica[1][46] indipendentemente dalle ammissioni di taluni di essi.[47] La sentenza, riformando completamente la precedente decisione, dispose l'assoluzione motivando - tra l'altro - come segueː «se è pur vero che la cospirazione politica mediante associazione va considerata reato di pericolo, ed anzi, di pericolo indiretto, sembra ragionevole ritenere che per la concreta realizzazione della fattispecie delittuosa, sia indispensabile, quanto meno, che il pactum criminis intervenuto fra i congiurati e la societas sceleris dai medesimi creata abbiano un'effettiva potenzialità lesiva dei beni che la norma incriminatrice intende salvaguardare: non è possibile, infatti, specialmente nell'attuale clima di garantismo liberaldemocratico che si vogliano sanzionate con pene pesanti come quelle dianzi indicate mere farneticazioni da gerontocomio o da circolo dopolavoristico, o pure e semplici corbellerie da retrobottega di farmacia di provincia, sicuramente insuscettibili di qualsiasi pratico sviluppo operativo».[48] I giudici, per il resto ridussero a una pena compresa tra un anno e otto mesi e un anno e quattro mesi le condanne che erano state inflitte per il reato di detenzione e porto di arma da fuoco ad Alfredo Dacci, Ignazio Cricchio, Franco Montani e Giampaolo Porta Casucci[49], tutti provenienti dall'inchiesta sulla "Rosa dei Venti".[50] Il giudizio finale della Cassazione nel 1986 La Suprema Corte confermò, il 25 marzo 1986, la sentenza di secondo grado, ribadendo l'insussistenza della cospirazione politica e confermando le condanne per i reati minori[51]. Tale provvedimento della Corte di Cassazione, ormai definitivo e irrevocabile, consentì agli imputati assolti o condannati a pene minori di potersi avvalere, anche per il futuro, dell'articolo 649 del codice di procedura penale, il quale stabilisce che nessuno può essere processato più volte «per il medesimo fatto». Ogni elemento emerso successivamente a tale sentenza, quindi, avrebbe inciso soltanto a titolo di eventuale condanna morale o storica, essendo ormai inefficace sotto il profilo processuale (nei confronti dei vari Borghese, Saccucci, Delle Chiaie, Spiazzi, Orlandini, ecc.)[52].

Nessun commento:

Posta un commento

Fosforo in gamba passeggera dc9 è nei flares Nato della guerra elettronica

I MEDICI RINVENNERO NELLA GAMBA DI UNA VITTIMA UN GROSSO FRAMMENTO DEL CARRELLO DELL'AEREO. ...