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sabato 7 settembre 2024

1982 Sintesi omicidio generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Per i tre omicidi sono stati condannati all'ergastolo come mandanti i vertici di Cosa nostra, ossia i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.[53] Nel 2002 sono stati condannati in primo grado, quali esecutori materiali dell'attentato, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia, entrambi all'ergastolo, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci a 14 anni di reclusione ciascuno.[32][54] Nella stessa sentenza si legge: «Si può senz'altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d'ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all'interno delle stesse istituzioni, all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale.[55]» Il 4 aprile 2017 Il Fatto Quotidiano riporta la rivelazione del collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino secondo cui l'ex eurodeputato DC Francesco Cosentino, vicino all'onorevole Giulio Andreotti, sarebbe il mandante dell'omicidio del prefetto Dalla Chiesa. Tale notizia risale all'audizione in commissione antimafia del Procuratore Generale di Palermo Roberto Scarpinato.[56] Nel 2018 il collaboratore di giustizia Simone Canale, affiliato alla cosca Alvaro di Sinopoli, rivela che il boss Nicola Alvaro, originario di San Procopio, detto u zoppu, appartenente alla famiglia degli Alvaro, detti "codalonga", era presente all'agguato contro il generale Dalla Chiesa, confermando le precedenti accuse contestategli nel 1982 e decadute perché il testimone contro il boss Alvaro era stato ritenuto inattendibile.[57] Aspetti dibattutiDepistaggi nell'inchiesta De Mauro I magistrati che a Pavia hanno condotto la seconda inchiesta (1994-2004) sulla morte di Enrico Mattei e a Palermo la terza sul caso De Mauro hanno accertato che la "pista droga", privilegiata a Palermo dai carabinieri del col. Dalla Chiesa, costituiva il perno di un depistaggio volto a impedire che l'uccisione del giornalista fosse collegata a quella di Enrico Mattei.[18] Nel marzo-aprile 1970 Mauro De Mauro aveva accettato di supportare il presidente dell'Ente minerario siciliano Graziano Verzotto in una campagna mediatica contro i dirigenti dell'Eni che si opponevano alla costruzione del metanodotto Algeria-Sicilia e il 21 luglio successivo aveva ricevuto dal regista napoletano Francesco Rosi l'incarico di stendere una bozza di sceneggiatura sull'ultimo viaggio di Mattei in Sicilia in preparazione del film Il caso Mattei, uscito nelle sale cinematografiche nel successivo 1972.[18] Nel corso delle sue inchieste giornalistiche il redattore de L'Ora di Palermo aveva acquisito notizie sui retroscena della morte del manager pubblico che sarebbero dovute rimanere segrete. Viceversa la questura palermitana aveva subito configurato responsabilità a carico dell'avv. Vito Guarrasi e dell'ex sen. Graziano Verzotto, ma ai primi del novembre 1970 le sue indagini furono bloccate dai vertici nazionali della polizia di stato e dei servizi segreti italiani, su direttive di politici romani.[18] Un secondo depistaggio dei carabinieri agli ordini di Dalla Chiesa si rese necessario nell'estate del 1971 dopo l'arresto dei boss mafiosi Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone dopo le dichiarazioni di Graziano Verzotto davanti alla commissione parlamentare antimafia (26 marzo 1971).[18] Il 13 settembre 1971 il col. Dalla Chiesa e il suo braccio destro cap. Giuseppe Russo inscenarono un farsesco interrogatorio dell'ex senatore di origini padovane per «potenziare la pista mafiosa», rivelatasi inconsistente.[58] Classificato dai giudici del tempo come «anomalo» e una «ingerenza nell'istruttoria in corso»,[58] esso è stato considerato da una sentenza del 2011 una «vera e propria sceneggiata, orchestrata tanto per costruire un atto processualmente spendibile» a favore di Verzotto.[59] Interferenze nell'inchiesta Feltrinelli Fu un esposto presentato dal gen. Dalla Chiesa alla magistratura torinese a metà marzo 1975 a indurre il giudice Ciro De Vincenzo a spogliarsi dell'inchiesta sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli di cui si occupava da tre anni. Alla fine il magistrato milanese venne prosciolto dall'accusa di connivenza con le Brigate Rosse, ma intanto l'indagine passò di mano in una fase cruciale, per cui i colleghi di De Vincenzo mancarono l'occasione di identificare il misterioso "Gunther", un collaboratore dell'editore sospettato di aver provocato il fatale scoppio di Segrate, col terrorista nero Berardino Andreola. Considerato un confidente dei carabinieri, costui si era consegnato volontariamente al col. Giuseppe Russo il giorno successivo (2 febbraio 1975) al fallito sequestro dell'ex sen. Graziano Verzotto a Siracusa. Subito dopo furono un interrogatorio-farsa (5 marzo 1975) e un rapporto giudiziario (5 aprile 1975) di due ufficiali dei carabinieri, già collaboratori del gen. Dalla Chiesa, a liquidare il fascista romano come mitomane, ponendo le premesse del suo proscioglimento in sede giudiziaria.[60] Contemporaneamente una ricostruzione addomesticata del fallito sabotaggio del traliccio di Segrate, registrata da Andreola su un'audiocassetta e ritrovata nell'ottobre del 1974 dai carabinieri del gen. Dalla Chiesa nel covo brigatista di Robbiano di Mediglia, riuscì a convincere i magistrati milanesi del carattere volontario della presenza dell'editore milanese sotto il traliccio di Segrate e, quindi, dell'accidentalità del ferale scoppio.[60] Al contrario, i «carabinieri del Nucleo speciale» del gen. Dalla Chiesa non seppero fornire notizie utili al giudice torinese Gian Carlo Caselli, che li aveva incaricati di indagare su Andreola, un fascista già volontario della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini che si spacciava per discepolo di Feltrinelli.[18] Eppure costui era ben noto al suo fidato ex collaboratore col. Russo che, pur informato in anticipo dei progetti criminali del terrorista nero, non aveva mosso un dito per prevenire l'agguato siracusano al sen. Verzotto del 1 febbraio 1975.[18] Una guerra asimmetrica al terrorismo I successi investigativi conseguiti dal gen. Dalla Chiesa si registrarono unicamente contro il terrorismo di sinistra nelle vesti dapprima di responsabile del "Nucleo speciale antiterrorismo", operante a Torino fra il maggio 1974 e il luglio 1975, e poi – a partire dall'agosto 1978 – di «Coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo», alle dirette dipendenze del ministro degli Interni Virgilio Rognoni.[18] Coadiuvato da un ristretto numero di ufficiali qualificati e sganciati dalle strutture territoriali dell'Arma, i suoi uomini avevano saputo adottare tecniche investigative innovative, a partire dall'infiltrazione delle organizzazioni terroristiche. In compenso non si è mai capito perché, in piena "strategia della tensione in Italia" fondata anche secondo alcuni analisti sulla "teoria degli opposti estremismi", il gen. Carlo Alberto dalla Chiesa non abbia ottenuto risultati altrettanto brillanti nei confronti dell'eversione di estrema destra. E nemmeno perché il suo reparto operativo sia stato sciolto a metà 1975 dopo i successi contro le BR, che così ebbero modo di rapire e uccidere Aldo Moro. Stupisce infine che l'apposito Comitato di crisi, costituito dal ministro degli Interni Francesco Cossiga nel marzo del 1978, non si sia avvalso della sua esperienza e delle sue competenze per scoprire il carcere del popolo in cui le brigate rosse tenevano rinchiuso il loro illustre prigioniero. Il grave lutto familiare che l'aveva colpito (la morte della consorte Dora Fabbo) non spiega in alcun modo la mancata valorizzazione dei suoi uomini, tutti provvisti di grandi capacità operative.[61] Di qui il sospetto che tale organismo, infarcito di esponenti della loggia P2 di Licio Gelli, non fosse particolarmente interessato alla liberazione dell'on. Moro, un politico che sembrava ormai rassegnato all'ingresso dei comunisti di Enrico Berlinguer al governo. Tale interpretazione risulta avvalorata dai notevoli risultati riportati dal gen. Dalla Chiesa contro le Brigate Rosse dopo il suo richiamo in servizio tramite l'utilizzo di infiltrati e di pentiti, come da lui riconosciuto nelle sue relazioni semestrali.[62] Altre perplessità le ha infine suscitate l'intromissione del gen. Dalla Chiesa nell'inchiesta palermitana sulla strage di Alcamo Marina (26 gennaio 1976).[63] Quella volta furono confessioni strappate con la tortura da carabinieri del col. Russo a far condannare all'ergastolo persone risultate innocenti dopo oltre vent'anni di ingiusta detenzione.[18] Il loro proscioglimento fa dell'eccidio di Alcamo Marina un caso giudiziario tuttora irrisolto, su cui aleggia l'ombra di una provocazione politica fallita per impreviste complicazioni.[18] La richiesta di iscrizione alla P2 Lo stesso argomento in dettaglio: P2. Il 17 marzo 1981 durante la perquisizione della Guardia di Finanza a Castiglion Fibocchi nella cassaforte di Gelli furono ritrovate, oltre agli elenchi degli affiliati alla loggia P2, anche parecchie «domande di iscrizione con firme illustri», tra cui quella del gen. Carlo Alberto dalla Chiesa.[64] Nel suo caso le due firme di presentazione risultarono apposte dal generale della Guardia di Finanza Raffaele Giudice - poi travolto dallo scandalo dei petroli - e dal deputato democristiano Francesco Cosentino,[65] segretario generale della Camera dei deputati. Sia il maestro venerabile Licio Gelli sia l'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga hanno considerato il generale regolarmente iscritto alla Loggia massonica segreta P2.[66] In una sua lettera il primo è arrivato a presentarlo come «un autorevole fratello della P2, emarginato, perseguitato, e poi mandato allo sbaraglio perché massone», definendolo «un martire per lo Stato, ma anche per la causa massonica». Sulla loro stessa posizione Giuliano Di Bernardo, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia dal 1990 al 1993.[67] Secondo il figlio Nando dalla Chiesa, invece, la domanda di iscrizione del generale non sarebbe mai stata accolta da Licio Gelli, rimasto sempre diffidente nei suoi confronti.[68] Il padre l'avrebbe presentata nell'autunno del 1976, in un momento di particolare isolamento all'interno del corpo di appartenenza, su sollecitazione del gen. Franco Picchiotti, vice comandante dell'Arma.[68] Da parte sua il gen. Dalla Chiesa non avrebbe considerato un atto grave l'appartenenza alla P2, in quanto ritenuta composta da «uomini per bene, servitori dello Stato»,[69] tant'è vero che vi aveva aderito anche il fratello Romolo dalla Chiesa, altro generale dell'Arma.[70] Il 12 maggio 1981, di fronte ai magistrati milanesi Giuliano Turone, Gherardo Colombo e Guido Viola, il generale ha motivato la sua richiesta di iscrizione come «mezzo con cui chiarire» a se «stesso e conoscere chi […] fosse nell'ambito della massoneria e in particolare nella loggia P2».[71] Questa versione è riportata anche dal generale Bozzo, che la colloca in un momento di difficoltà del generale Dalla Chiesa, isolato dentro l'Arma: «Uscito Picchiotti, Dalla Chiesa fece due telefonate: una al generale Palombi, ma non lo trova, l’altra al generale Mino, che dinanzi alle sue perplessità, commenta: «Non vedo che male possa esserci». Qualche settimana dopo, Dalla Chiesa consegnava la richiesta di iscrizione a Picchiotti e del ventilato trasferimento nessuno avrebbe più parlato.[72]» Tuttavia la domanda di iscrizione sembrò creargli diversi problemi: il figlio Nando ha riferito alla primavera del 1981 «un tentativo condotto con inaudita determinazione» dal comandante generale Umberto Capuzzo «di espellerlo dall'Arma dei carabinieri». In suo favore si espressero i ministri Virginio Rognoni e Lelio Lagorio e il gen. Eugenio Rambaldi, che si pronunciarono per l'archiviazione del suo caso.[68] Non si sa per certo se dal ritrovamento delle carte del memoriale Moro via Montenevoso Dalla Chiesa conoscesse il fatto che una parte di esse fossero state sottratte e rimesse nel covo; tuttavia di tale circostanza ne sarebbe stato al corrente Licio Gelli, che ne parla al giornalista Coppetti e all'ufficiale del SIOS Umberto Nobili[73] e questa versione si attesta anche lo storico Miguel Gotor: Le carte, verosimilmente lungo l’asse Musumeci-Santovito, dovettero raggiungere Gelli che il 2 dicembre 1978 mostrava di essere a conoscenza di due memoriali, uno consegnato alla magistratura (quello dattiloscritto) e l’altro no (quello in fotocopie di manoscritto).[74] Nonostante tutto Rita e Nando dalla Chiesa smentirono più volte la sua appartenenza alla P2.[75] Una lotta a Cosa Nostra con «sconti alla DC» Consapevole che lo «Stato» gli aveva affidato il coordinamento della lotta contro Cosa Nostra più per perpetuare «la tranquillità della sua esistenza», che per «combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa»,[68] il gen. Dalla Chiesa si era premunito con la richiesta di poteri adeguati e un approccio decisamente realistico alla sfida intrapresa. Così nell'intervista rilasciata il 10 agosto 1982 precisò al giornalista di Repubblica Giorgio Bocca che il suo obiettivo era quello «di contenere» e non certo «di vincere, di debellare» la mafia, presentata come un «fenomeno interno allo Stato, di cui condiziona il pulsare della vita quotidiana come le scelte strategiche».[68] E pochi giorni prima di essere ucciso confermò ai familiari la disponibilità «a fare qualche sconto» ai democristiani «legati alla mafia», purché gli fosse consentito di «togliere il marcio»[68] accumulatosi nei rapporti fra Cosa Nostra e politica nel corso dei decenni. Anziché manifestazione di cinismo, simili propositi si prestano ad essere interpretati come prova di realismo, perché nascevano dalla consapevolezza che un'azione di contrasto frontale a Cosa Nostra era destinata all'insuccesso senza l'appoggio convinto e solidale di tutte le forze politiche e di tutte le Istituzioni. Alla prova dei fatti la sua disponibilità a non delegittimare il maggior partito di governo con la riesumazione di vecchi scheletri custoditi negli armadi dei diversi Palazzi del potere non bastò a superare la diffidenza della corrente andreottiana, da lui qualificata come «la famiglia politica più inquinata» dell'isola.[68] Di qui il sospetto che all'agguato di via Carini non sia rimasta estranea una volontà politica ancora legata al voto di scambio e alla logica della convivenza non conflittuale con Cosa Nostra. Non per niente Tommaso Buscetta ritardò fino al 1994 le sue rivelazioni in tema di rapporti fra politici e uomini d'onore, avendo in precedenza constatato la mancanza di «una seria volontà dello Stato di combattere il fenomeno mafioso» e la permanenza nella «vita politica attiva» dei «personaggi mafiosi di cui» avrebbe dovuto «parlare».[76] I dossier e i documenti segreti Allo stesso approccio realistico dev'essere ricondotta l'adombrata disponibilità del gen. Dalla Chiesa ad usare delicati dossiers in suo possesso sia come arma di pressione nei confronti di una certa classe politica restia a prendere le distanze da Cosa Nostra, che come strumento di tutela della propria incolumità. Confermata da familiari e da altre fonti, l'ipotesi ha acquistato ulteriore credito dalla sparizione, all'indomani della sua uccisione, dei documenti conservati nella sua cassaforte e nella sua borsa personale.[68] Difficile, però, credere che essi coincidessero con alcune delle carte da lui ritrovate nel covo brigatista milanese di via Monte Nevoso e non consegnate ai magistrati, visto che neppure il secondo memoriale Moro, reso pubblico nel 1990, conteneva «novità inedite […] rispetto a quello del 1978».[77] Al possesso di materiale di diverso genere fanno pensare i suoi numerosi incontri con Mino Pecorelli, un giornalista in grado di pubblicare notizie riservate perché notoriamente avente molte conoscenze servizi segreti.[18] In effetti su OP (Osservatorio Politico) del 18 ottobre 1978 Pecorelli aveva scritto che Dalla Chiesa («il generale Amen») era riuscito a individuare la prigione nella quale le brigate rosse tenevano prigioniero Aldo Moro e ne aveva informato il ministro dell'Interno, ma Cossiga non sarebbe intervenuto perché «costretto a non intervenire».[78] Con l'uccisione di Moro il generale era diventato un pericoloso testimone, per cui Pecorelli scrisse che di lì a poco sarebbe stato assassinatp.[78] Lo stesso Pecorelli venne ucciso[79] pochi giorni dopo aver dichiarato di voler pubblicare integralmente su OP un dossier sulle responsabilità politiche del sequestro Moro.[80] Di notizie imbarazzanti per la classe politica di governo il gen. Dalla Chiesa ne avrebbe presumibilmente averne acquisite molte nel corso del suo quarantennale servizio, a partire dai retroscena del delitto di Enrico Mattei – probabile oggetto di un suo interessamento la sera stessa della sciagura aerea di Bascapé (27 ottobre 1962)[81] - per finire con quelli De Mauro, Feltrinelli, Moro, per citarne alcuni. Risulta pertanto plausibile che abbia confidato su informazioni riservate di questo genere, anziché sulla benevolenza di Gelli e della loggia P2, per vincere le ostilità di certi settori dell'Arma e del mondo politico e far carriera ottenendo, in rapida successione, il coordinamento della lotta alle brigate rosse (1978) e alla mafia (1982), il comando della divisione "Pastrengo" (1979) e il vice comando dell'Arma (1981), massima carica a cui potesse allora aspirare un generale dei carabinieri.[18] L'ideologia ed il senso del dovere Anche i comportamenti del gen. Dalla Chiesa poco compatibili dal punto di vista dell'osservanza giuridica o costituzionale appaiono in sintonia con la funzione di stabilizzazione politica in chiave conservatrice svolta dall'Arma dei carabinieri nei primi decenni del dopoguerra,[18] oltre che con le sue personali estrazione sociale e formazione culturale. Il figlio Nando gli ha attribuito una visione paternalistica della democrazia, definendolo in Delitto imperfetto un «uomo del Novecento con profonde radici nel secolo precedente», vale a dire nell'Ottocento.[68] Il senso delle gerarchie e l'innata deferenza nei confronti della legge e dell'ordine costituito fecero di lui un leale servitore dello Stato anche negli anni più bui della Guerra Fredda, quando componenti non marginali delle istituzioni strizzarono l'occhio all'eversione di destra. Lo stesso figlio Nando lo riteneva «capace anche di spregiudicati compromessi, ma sempre nel vincolo di quello che egli riteneva fosse il superiore interesse dello Stato».[68] Emblematica in questo senso la battuta attribuitagli da Elda Barbieri, vedova De Mauro: «Signora, non insista su questa tesi, perché, se così fosse, ci troveremmo dinanzi ad un delitto di Stato e io non vado contro lo Stato».[18] Di qui la decisione dei giudici di una Corte d'Assise di Palermo di elevarlo, nella sentenza emessa il 10 giugno 2011, a «prototipo» dei «tanti, troppi servitori fedeli dello Stato, custodi della rispettabilità e dell'onore delle istituzioni», per i quali era «intollerabile anche la sola idea che all'interno» delle stesse «avesse potuto germinare un complotto» della «natura e portata» messe in luce dalla loro inchiesta sulla scomparsa del giornalista.[82] Un acuto sentimento dell'onore e della legalità potrebbero, in compenso, spiegare le posizioni politicamente scomode assunte da un certo momento in avanti. Nella citata deposizione davanti ai giudici milanesi (12 maggio 1981), Carlo Alberto dalla Chiesa attribuì lo scioglimento del suo reparto torinese antiterrorismo al fatto che esso «aveva ormai assunto per molti versi la fisionomia più ampia di un nucleo contro il terrorismo in genere», dopo che egli stesso aveva disposto che «un ufficiale e sei, sette sottufficiali si dedicassero esclusivamente a penetrare l'ambiente di estrema destra».[71] Secondo il figlio Nando il padre avrebbe anche dato, sia pure «a titolo esclusivamente personale», un «contributo alle indagini per la strage di Bologna» del 2 agosto 1980, che avevano incontrato «ostacoli e vischiosità in alcuni livelli regionali dell'Arma».[68] Avrebbe poi assunto il coordinamento della lotta alla mafia per un alto senso del dovere, cioè per poter «continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli».[68] Negli anni di servizio trascorsi in Sicilia tra il 1949 e il 1973 aveva avuto modo di conoscere a fondo la pervasività di Cosa Nostra e dei suoi legami con la politica. Nel 1982 l'evoluzione democratica del partito comunista e la riduzione della sua presa sulla società civile devono averlo convinto del venir meno anche di quest'ultimo alibi politico.[18] Secondo il figlio Nando Pagò con la vita la sua generosità e l'affezione alla divisa restituendo «credibilità e prestigio a istituzioni militari» – in primis l'Arma dei carabinieri – «che nella coscienza dei più si erano ridotte a laboratorio di complotti o a inesauribile alimento della satira popolare»,[68] specie nella barzellettistica. Diversi ambienti politici non lo assecondarono affatto nell'opera di moralizzazione della vita pubblica, ma un decennio più tardi finirono tutti travolti dall'implosione della Prima Repubblica sotto il peso di Tangentopoli.

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